Premessa: nei mesi di novembre e dicembre assaggio una quantità notevole di panettoni. Direte: li assaggi, mica te li ingoi interi. Vero, ma quando la tua giornata inizia con un numero impegnativo di pezzi di panettoni diversi, vuol dire che serve grande equilibrio nel resto della giornata per mantenere una dieta non dico sana, ma senza un accumulo eccessivo di altri grassi e zuccheri. Motivo per cui, a novembre e dicembre, pane e primi negli altri pasti della giornata sono un tabù.
Seconda premessa: durante i famigerati pranzi stampa, quelli per i quali noi giornalisti del cibo veniamo tacciati di mangiatartinismo dai colleghi più seri e meno fortunati, spesso il servizio è standard. Tutti molto occupati a fare bene, scolastici, precisi a volte, ma molto concentrati a portare a casa il servizio, finire nei tempi, gestire il cliente (un’azienda che vuol fare bella figura e ha spesso molte pretese in termini di numero di portate, tempi, calici da utilizzare) e incastrare questo lavoro con gli altri tavoli del ristorante, o col servizio precedente o successivo.
Svolgimento. Qualche giorno fa, in uno di questi pranzi stampa ospitato dalla storica enoteca Al Cavallante a Milano, questa volta organizzato per degustare dei vini e assaggiare dei salumi (entrambi di grande livello, ma non è questo il punto) ho avuto l’illuminazione di che cosa è – per me – la cosa più importante quando sono seduta a tavola da cliente. E l’ho scoperto grazie a una ragazza con gli occhi vivaci, il sorriso piacevole e lo sguardo dritto, quel fare gentile ma fermo, di chi sa che deve prestare attenzione all’ospite ma anche a fare bene e nei tempi prestabiliti il suo lavoro. Ma, senza mai dimenticare l’empatia.
Sono sfinita dai tanti “madame” che accompagnano ogni gesto del cameriere di turno, sono ormai satura da quella cantilena priva di senso che fa seguire un “a voi!” dopo ogni santo grazie che arriva dal tavolo (a voi cosa??? Grazie a te che fai il tuo lavoro, non a me che ti ringrazio, se no non la finiamo più). Non ne posso più di questo finto formalismo e di questa attenzione alle regole che diventa ossessione affettata.
Che cos’è, davvero, il tocco magico che rende il mio pranzo un’esperienza da ricordare? L’attenzione, l’empatia, la complicità con chi mi sta servendo e mi vede come persona, si accorge di me come unicità e mi fa capire che ha capito, che è lì per me, che mi accudirà e si prenderà cura del mio stare alla sua tavola in modo personale, unico, davvero mio.
Un amico dice che misura il servizio di un ristorante – da mancino – vedendo quanto tempo serve al cameriere ad apparecchiare le posate al contrario, dopo la prima portata. Io ho due ricordi: il cameriere di un grandissimo tre stelle francese che quando mi alzai da tavola, giovanissima e in soggezione, per cercare la toilette, mi guidò senza parlare ma solo con lo sguardo e i gesti delle braccia, portandomi senza alcuna parola dove dovevo arrivare. O quando un cameriere portò una penna al mio ospite che si stava semplicemente toccando l’interno della giacca, alla ricerca proprio di una biro con cui prendere appunti. O di quando un altro portò a mio marito un paio di occhiali da vista appena si accorse delle difficoltà a leggere il menu, per una dimenticanza.
Gesti che dimostrano che non si sta semplicemente facendo un lavoro, ma ci si sta occupando dell’ospite, si è attenti e aperti all’ascolto.
Ma torniamo al pranzo. Assaggio i salumi, e lascio la focaccia, come da regola aurea dei miei mesi da panettone.
«Non gradisce i lievitati?» me lo sussurra all’orecchio, nessuno dei colleghi se ne accorge, coglie l’attimo perfetto per non mettere me in imbarazzo e prova a entrare in empatia. Ha visto una cosa, e sa che nei piatti successivi ci sarà altro pane: lo sta facendo per lei, per avvisare la cucina, ma a me sembra una delicatezza meravigliosa. «Nel prossimo piatto c’è un lievitato, ma non può non assaggiarlo: poi prometto che farò togliere tutto il resto, ma questo non se lo perda». Gioco, partita, incontro. Mi ha vista, ha capito, ha agito con discrezione, ha aiutato la cucina, ha evitato di mettermi in imbarazzo per i piatti successivi, è entrata in empatia con me e ha creato un rapporto complice. In quegli scambi eravamo lei e io, nonostante fossimo su un tavolo da dieci. Mi ha rassicurata, mi ha portata a mangiare quel piatto che per lei, per il ristorante, era importante che assaggiassi (era delizioso, e ha fatto benissimo a insistere!) e l’ha fatto con un’eleganza e una visione splendida.
Mi ha sorriso più volte, dopo, mentre mi porgeva piatti che erano solo per me, con quella piccola ma significativa variazione che mi ha fatta stare bene, e mi ha permesso di non essere in imbarazzo dovendo scartare qualcosa che non volevo mangiare. E l’ha fatto in un modo delicato e raffinato, senza affettazione, ma con quella naturalezza che solo la buona educazione e il “mestiere” possono costruire. Scommetto che non si sente un servitore di piatti, ma un veicolo per la felicità dell’ospite, e sono certa che il mio sorriso e la mia stretta di mano a fine servizio le hanno fatto capire quando quella sottile differenza tra fare il proprio lavoro ed essere un grande professionista, a volte, passa solo dall’attenzione.