Testimone silenzioso“Fiore mio” di Paolo Cognetti è una sessione di meditazione visiva tra le montagne

Lo scrittore milanese porta sul grande schermo il suo tema più caro: la natura in alta quota. Dopo il successo delle prime tre giornate di programmazione nel capoluogo lombardo, il film è in replica nelle sale italiane e presto sarà distribuito in tutto il mondo

©Daniele Mantione

«Mi piace usare frasi interrogative, per esempio: come sarà la montagna quando non ci sarò? Le mancherò, in qualche modo, come lei manca a me? Sono domande alle quali non credo di trovare risposta, ma mi aiutano a guardare meglio le cose». Paolo Cognetti.

Ama moltissimo la fotografia, Paolo Cognetti. «Forse più del cinema», confessa durante la presentazione del suo primo film da regista, “Fiore Mio”, prodotto da Samarcanda Film, Nexo Studios, Harald House ed EDI Effetti Digitali Italiani, e ancora in sala dopo il successo di una programmazione limitata a Milano. Racconta di incantarsi di fronte al lavoro dei grandi fotografi e che da qualche anno ha iniziato a fotografare in montagna. Da qui, dopo tanti libri e sceneggiature di documentari, nasce probabilmente il coraggio di ampliare il racconto del proprio mondo. Questa volta a livello visivo, con il cinema, lasciando un po’ da parte le parole.

Il film, che prende il nome dalla canzone di Andrea Laszlo De Simone (che parte sul finale del film), ci riporta negli stessi paesaggi vissuti attraverso gli occhi di Pietro e Bruno nel romanzo “Le Otto Montagne”, che gli valse lo Strega nel 2017. Stavolta però la macchina da presa accorcia ogni distanza: ci fa vedere la montagna come la vede lui, viva, tra «un albero che oscilla nel vento, un torrente che scorre e salta, un masso che incombe, protegge e proietta la sua ombra». 

In silenzio seguiamo i passi di Cognetti e quelli del suo inseparabile cane, Lucky. Ogni immagine è autentica, intima e profondamente introspettiva, impreziosita dalle musiche originali di Vasco Brondi, amico fraterno di Cognetti, che per la prima volta si è cimentato nella scrittura di una colonna sonora completa: “Ascoltare gli alberi”, per il quale lo stesso Cognetti ha prestato parole e voce nel brano “Tornare a casa”.

Vasco Brondi e Paolo Cognetti

La storia inizia nell’estate del 2022, quando Paolo assiste all’esaurimento della sorgente che rifornisce d’acqua la sua casa a Estoul, un piccolo borgo a millesettecento metri che sovrasta la valle di Brusson, in Valle d’Aosta. Questo evento, che lo turba profondamente, lo spinge a risalire le vette che lo hanno formato, attraversando ghiacciai e paesaggi abitati da camosci, stambecchi, cervi, volpi e lupi, «gli animali che, non visti, esistono e abitano la montagna nel modo più autentico». Nel suo viaggio lungo il Monte Rosa, Cognetti non è mai davvero solo: con lui c’è Ruben Impens, fotografo e direttore della fotografia con cui ha lavorato per “Le Otto Montagne”, e i volti di chi ha saputo fare propria l’essenza della montagna.

C’è Remigio, amico di una vita nato e cresciuto in Val d’Ayas, capace di leggere le tracce e la memoria di ogni luogo; Arturo Squinobal, che lo portò per la prima volta sul ghiacciaio da bambino, e sua figlia Marta, che ha trasformato l’Orestes Hütte nel primo rifugio vegano delle Alpi. E ancora Corinne e Mia, il cui sorriso sereno racconta l’armonia con il proprio posto nel mondo, e Sete, con la sua vita divisa tra le Alpi e l’Himalaya, dove lo attendono la sua famiglia e i trekking tra le vette sacre.

Il film è suddiviso in tre capitoli, ispirati alla simbologia buddhista dei “Tre Rifugi”: il Maestro, la Via e la Comunità. Tre elementi che delineano il cammino del praticante verso la liberazione e l’illuminazione. Rifugiarsi nel Buddha, nel Dharma (l’insegnamento) e nel Sangha (la comunità spirituale) significa trovare una guida, una via e un gruppo di compagni di viaggio lungo la strada per la consapevolezza. 

©Daniele Mantione

In “Fiore Mio”, questa simbologia trova una doppia interpretazione: nei luoghi fisici che scandiscono il viaggio di Paolo – il Quintino Sella, l’Orestes Hütte e il Mezzalama  – e in una lettura più intima. La montagna diventa il Maestro, che insegna attraverso il silenzio e la contemplazione; la Via i percorsi tra ghiacciai e vallate, luoghi di trasformazione e introspezione; la Comunità le persone e le storie incontrate lungo il cammino. 

Proprio sul senso della sua ricerca Paolo racconta: «Desideravo che i personaggi del film vivessero come gli animali, che anche loro fossero soprattutto corpi, gesti, parti della montagna. Non tante parole. Ho voluto coglierli nel loro fare, entrare con lo stesso silenzio e la stessa pazienza nella loro intimità. Infine, ho voluto parlare di ghiaccio, neve e acqua. Questo è il tempo del flusso. L’anima della montagna, la sua trasformazione e il suo essere viva. Ho scoperto una cosa scrivendo di paesaggio: ho abolito il verbo essere che ferma le immagini e ho deciso di usare i verbi d’azione, perché il paesaggio si muove e agisce, non è un’immagine».

Si può osservare qualcosa per anni e vedere sempre la stessa cosa. Oppure il contrario: letture infinite di sé e del mondo. Per Cognetti, i rifugi e i panorami del Monte Rosa hanno sempre offerto la seconda possibilità. «Osservo queste montagne da quando ero bambino. Le ho avute negli occhi per tutta l’estate, un ragazzino solitario che guardava e guardava. D’inverno, in città, certe immagini mi sorprendevano da dove erano rimaste bloccate: un albero, un masso, un ruscello, il rudere di una capanna. Mi succede anche adesso, senza motivo, magari mentre sto facendo altro a Milano».

©Daniele Mantione

Ogni ritorno, ogni sguardo rivolto alle vette e alle vallate, è una ripetizione mai uguale a sé stessa, ma carica di consapevolezza. Una visione che ancora una volta si avvicina alla cultura orientale e, in particolare, alla serie “Le 36 vedute del monte Fuji” di Katsushika Hokusai. La montagna più alta del Giappone era per l’artista – allora settantenne – una presenza viva, pulsante, da rappresentare nella sua evoluzione, visibile sui suoi fianchi, nelle valli sottostanti, sulla vetta e persino nelle città lontane. 

Anche quella di Cognetti è una meditazione visiva: la montagna non si limita a esistere, ma agisce, si trasforma, incarnando il ruolo di testimone silenzioso ma attivo delle nostre trasformazioni, delle nostre domande e, forse, delle nostre possibilità di riconciliazione. «All’inizio (si riferisce a Ruben Impens) ci siamo detti solo: vogliamo che ci sia tanto paesaggio in questo film, tanta montagna sopra le nostre teste e che gli esseri umani ci si perdano dentro, ne facciano parte. Da metà film in poi abbiamo seguito anche una seconda idea: volevo, gradualmente, scomparire. Ho chiesto a Ruben di riprendermi quasi sempre di spalle, anche di farmi uscire dal quadro. Di perdermi (…)».

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