Dalla newsletter settimanale di Greenkiesta (ci si iscrive qui) – Ci sono tre cose sicure nella vita: la morte, le tasse e l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) che boccia l’Italia sul consumo di suolo, ossia l’aumento di coperture artificiali (strade, edifici, parcheggi e infrastrutture di ogni genere) che “tappano” le superfici permeabili e naturali del nostro pianeta. C’è un’assuefazione diffusa dinanzi ai dati sul deterioramento dello strato superiore della crosta terrestre, sinonimo di prosperità, bellezza e capacità di sopravvivere ai cambiamenti climatici in corso. Insomma, di vita.
Il nuovo report “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici”, realizzato dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) dell’Ispra e presentato il 3 dicembre, è il termometro più accurato per dare forma all’urbanizzazione – spesso sregolata – all’interno dei nostri confini e affrontare il World soil day del 5 dicembre con un po’ più di consapevolezza.
In realtà, il tema è da settimane in cima all’attualità per via dell’approvazione da parte della Camera del disegno di legge “Salva Milano”, che – semplificando gli iter burocratici – sbloccherà lo stallo dell’urbanistica milanese e potrebbe innescare un nuovo impulso edilizio (significa più consumo di suolo). Si tratta di una norma molto discussa, che sta creando spaccature sia nella maggioranza a Palazzo Marino (il Pd è a favore, i Verdi sono contrari), sia nel mondo accademico.
Ma torniamo all’analisi dell’Ispra, che ha stimato l’impatto economico della perdita di servizi ecosistemici dovuta alla cementificazione. L’anno scorso, la riduzione del cosiddetto «effetto spugna» (capacità di assorbire e trattenere l’acqua piovana) è costata oltre quattrocento milioni di euro a livello nazionale. Gli autori del report parlano di «caro suolo», che si affianca agli altri costi «dovuti alla diminuzione della qualità dell’habitat, alla perdita della produzione agricola, allo stoccaggio di carbonio o alla regolazione del clima».
Povere di natura e ricche di asfalto, le città italiane non sono in grado di reagire ai due estremi dei cambiamenti climatici di origine antropica: periodi di siccità e precipitazioni intense; ondate di calore e tempeste; carenza e abbondanza di acqua. I danni economici connessi agli eventi meteorologici più violenti, quindi, sono in costante aumento (undici miliardi di euro solo per le alluvioni in Toscana ed Emilia-Romagna nel 2023). È un problema figlio del boom industriale degli anni Sessanta, che ha capovolto i centri urbani senza un minimo di lungimiranza. Il risultato è che l’«effetto spugna» di cui parla l’Ispra è sempre più ridotto, e all’orizzonte non c’è un’inversione di tendenza.
Secondo il report, nel 2023 le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 72,5 chilometri quadrati di territorio, con una media giornaliera di circa venti ettari di suolo persi. Per intenderci, un’area di un ettaro equivale a quella di circa 1,4 campi da calcio. La crescita, va detto, è rallentata rispetto al 2022: l’incremento lordo di consumo di suolo è passato da 8.500 ettari (2021-2022) a 7.254 (2022-2023). Il nuovo dato resta però superiore alla media decennale di 68,7 chilometri quadrati (2012-2022). Il calo è troppo timido e il trend rimane insostenibile da ogni punto di vista, anche a fronte del crollo delle aree verdi: meno di un terzo della popolazione urbana italiana, sottolinea l’Ispra, vive a trecento metri da un’area naturale pubblica di almeno mezzo ettaro.
La formula del “3-30-300” delle Nazioni Unite – creata da Cecil Konijnendijk, co-fondatore del Nature based solutions institute – dice che la distribuzione ideale del verde dovrebbe avvenire in questo modo: tre alberi visibili da ogni casa, trenta per cento di copertura arborea in ogni quartiere, trecento metri di distanza massima da un parco o un’area verde per ogni cittadino. In Italia, dove le superfici artificiali nelle aree a «pericolosità idraulica media» sono aumentate di oltre millecentodieci ettari nel 2023, è una splendida utopia.
A livello regionale, i valori percentuali più elevati sul consumo di suolo nel 2023 riguardano Lombardia (12,19 per cento), Veneto (11,86 per cento) e Campania (10,57 per cento); seguono Emilia-Romagna, Puglia, Lazio, Friuli-Venezia Giulia e Liguria, con valori sopra la media nazionale e compresi tra il sette e il nove per cento. La Valle d’Aosta, con il 2,16 per cento del territorio edificato o cementificato, resta la Regione più virtuosa. Nel 2023, gli incrementi maggiori si sono verificati nei territori più industrializzati: Veneto (+891 ettari di consumo di suolo lordo), Emilia-Romagna (+815), Lombardia (+780), Campania (+643) e Piemonte (+553).
Facendo uno zoom sulle città, le rilevazioni del periodo 2022-2023 hanno insignito a Uta (Sardegna), Ravenna e Roma il “titolo” di Comuni peggiori per incremento di superfici artificiali, nonostante il dato della capitale sia inferiore rispetto a quello del 2022. Tra i capoluoghi di Regione, oltre ai +71 ettari di suolo consumato a Roma nel 2023, si distinguono negativamente Cagliari (+26 ettari), Venezia (+23), Bologna (+21 ettari) e Milano (+19).
Un altro aspetto cruciale riguarda la logistica, responsabile – sempre nel 2023 – di altri cinquecentoquattro ettari di suolo cementificato. La crescita, spiega il report, è legata all’espansione dell’indotto produttivo e industriale (sessantatré per cento), alla grande distribuzione (venti per cento) e alle strutture per l’e-commerce (diciassette per cento). Da questo punto di vista, le Regioni peggiori sono Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto.
Parlando di consumo di suolo, c’è solo una cosa peggiore dei dati che avete appena letto: il ruolo irrilevante delle soluzioni all’interno del dibattito pubblico. L’unico modo per adattare i nostri centri urbani al cambiamento climatico è fare un passo indietro, perché a una natura fuori controllo bisogna rispondere con la stessa moneta, ossia con altro verde e altro blu. Per questo motivo, nei Paesi più avanzati si parla sempre più spesso di Nature based solutions (ecco un link per fare un ripasso), che in Italia vengono applicate sporadicamente, in via sperimentale e senza un supporto istituzionale adeguato. Siamo lontanissimi da una diffusione su larga scala.
Tra queste soluzioni, la depavimentazione – rimozione dell’asfalto o del cemento per permettere alla natura e alla terra battuta di riemergere – rimane una delle strategie più adatte per riguadagnare suolo e rendere le città più spugnose. C’è però un tema per certi versi nuovo: come spiega Paolo Pileri (docente di Pianificazione territoriale ambientale al Politecnico di Milano) a Giorgia Ravera di Good Morning Genova, «quello che c’è sotto (l’asfalto, ndr) è morto».
Infatti, il suolo che torna a respirare grazie alla depavimentazione è in pessime condizioni fisiche e chimiche: «Allora bisogna addizionarvi ammendanti e concimi, ed eventualmente sostituirlo parzialmente con altro suolo. Questi materiali vanno reperiti quanto più vicino possibile, per abbattere i costi di trasporto e dar luogo ad un’economia circolare, che possibilmente prediliga tutto ciò che è di risulta o di basso valore», scrivono Giacomo Certini e Giovanni Mastrolonardo (università di Firenze) su Altraeconomia. Con una «depavimentazione a cascata» (in ampie aree) associata alla vegetazione, continuano gli esperti, «un suolo virtualmente “morto” può essere recuperato a tutte quelle sue importanti funzioni che erano state azzerate dall’impermeabilizzazione».
L’università di Firenze ha avviato delle sperimentazioni a Prato per capire come rigenerare il suolo dopo una depavimentazione, ma è un caso purtroppo isolato: non ci sono fondi, non ci sono grandi iniziative istituzionali, non c’è confronto nei palazzi di potere. I vuoti nella ricerca accademica sono la diretta conseguenza della sottovalutazione politica di una soluzione che, come spiega Bianca Roncato del dipartimento Dagri dell’università di Firenze, spaventa i Comuni anche per via dei «costi del trasporto in discarica» dell’asfalto rimosso. Un suolo poroso e permeabile, assorbendo l’acqua piovana in eccesso, riesce a mitigare gli effetti delle alluvioni, che causano danni economici più ingenti rispetto ai costi necessari per attuare una seria strategia di depavimentazione.
«Il settore dell’edilizia può anche depavimentare. Dove è scritto che non puoi fare un bando pubblico per depavimentare e pagare lo stesso le imprese? Serve un grandissimo monitoraggio per individuare le zone in cui puoi scorticare l’asfalto», ricorda il professor Pileri. Alla fine, in Italia il problema è sempre il solito: la mancanza di una visione di medio-lungo periodo.