Non chiamateli biopic, sembra che i due protagonisti dei nuovi film musicali si arrabbino molto a sentire questa parola. Ma non è l’unica cosa che hanno in comune. Si chiamano Williams, uno Robbie, l’altro Pharrell. Hanno cinquant’anni (per l’esattezza Pharrell cinquantuno). Devono tutto alle nonne, le prime ad aver intuito il loro talento per la musica. E hanno deciso di raccontare la loro vita mettendoci la faccia senza che la loro faccia si veda: autobiografie girate come film d’animazione. Non certo per non farsi vedere, anzi. Entrambi non nascondono niente della loro vita: inizi difficoltosi, pochi soldi, crisi, successi pazzeschi e cadute, rinascite, ricadute, altri successo.
È solo una scelta stilistica che si traduce in idea geniale che permette allo spettatore di andare al cinema con una buona dose di curiosità che non si traduce nella noia dello stravisto. Pharrell Williams, già in sala con il film “Piece by Piece”, costruisce la sua storia con i mattoncini Lego; Robbie Williams fa interpretare sé stesso da una scimmia in “Better Man”, al cinema dal primo gennaio. Come film di Natale sono perfetti: quasi fantasy, commoventi, hanno finali di speranza, ti farebbero ballare se fosse concesso fra le poltrone, le colonne sonore potrebbero diventare la playlist delle feste. Giusti per una generazione di adulti che non ha nessuna intenzione di sentirsi tale, che gioca ancora con i videogame e indossa felpe cartoon, che più che padre/madre dei propri figli preferisce esserne amici, che fa balletti su TikTok. Cose così, insomma. Puoi andarli a vedere con la scusa di portarci i bambini, anche se non sono esattamente per bambini. Oppure goderteli come si fa con un bello spettacolo.
Limitandoci a un commento tecnico, entrambi sono film strepitosi. Pharrell Williams affronta il racconto della sua vita tutto sommato in modo classico: il regista Morgan Neville si mette dietro alla cinepresa e fa domande a Pharrell. Poi intervista i genitori, gli amici che sono Gwen Stefani, Missy Elliott, Snoop Dogg, Busta Rymes, Jay-Z, Justin Timberlake, Kendrick Lamar, Timbaland, I Daft Punk (le loro voci sono originali, prima di andare al cinema fate un giro in Internet per ricordare come sono, facce e look, è troppo divertente vedere la loro trasposizione sullo schermo). Esattamente come si fa nei soliti documentari sulle rockstar. Ma qui sono tutti interpretati da personaggi Lego che si muovono in un mondo fatto con i mattoncini. Pharrell lo dice subito, all’inizio del film: con i Lego puoi mettere insieme le cose come vuoi, puoi fabbricarti la vita che hai sempre desiderato. E farlo, come dice il titolo, pezzo per pezzo.
Sono parole sue «smontare tutto, mattoncini per mattoncini, poi rimetterlo insieme». Non bisogna dimenticare che l’autore soffre di sinestesia, un fenomeno sensoriale/percettivo neurologico che ti fa percepire gli stimoli in modo “speciale”: il suono, per esempio, si traduce in immagini o colori. Praticamente vede la musica. Quindi un cartoon è perfetto per fantasticare sulla propria esistenza: Virginia Beach, dove è nato, diventa Atlantis; i ricordi d’infanzia fra dislessia e fallimenti scolastici hanno i colori dei giochi dei bambini. Tutti gli altri sono comparse, ma fondamentali: senza di loro Pharrell non sarebbe quello che è oggi. Il che vale per tutti noi, anche per Robbie Williams, one man show vivente, quasi spietato nella sua autocelebrazione. Andatevi a leggere le cinquanta pagine di Wikipedia per sapere con chi avete a che fare o godetevi la mini serie che lo riguarda su Netflix.
Intanto va chiarito che Robbie Williams ha proprio la mania delle autobiografie: la prima l’ha scritta nel 2004, a trent’anni (con il giornalista Chris Heath, che raddoppia con “You know me” sei anni dopo) e ogni tanto si presenta in libreria con aggiunte di vita. E ne ha da raccontare, sempre senza vergogna: bullismo (fatto non subito), alcol, droga, rehab, il rapporto difficilissimo col padre, al quale deve, però, l’educazione musicale, quella “My Way” di Frank Sinatra che cantavano insieme a casa davanti alla tivù e poi sui palchi di mezzo mondo, in fondo è la filosofia di vita di entrambi. Quindi è stato felicissimo quando l’amico regista australiano Micheal Gracey gli ha proposto di trasformare le parole in video. Importante in questo progetto l’Australia: gran parte del film è girata lì, con attori locali. Ed è di questi giorni l’annuncio che “Better Man” è candidato a sedici premi Aacta (Australian academy of ainema awards) fra cui miglior film, migliore regia, migliore sceneggiatura, in sessantasei anni da che esiste l’evento, il film con più nomination.
Come si diceva il protagonista, Robbie Williams, è interpretato da Jonno Davies nascosto, in realtà esaltato, dall’aspetto di scimmia. Lo stesso Robbie è presentissimo in scena perché il suo corpo, oltre alla sua voce, è alla base di tutto: per catturare i suoi movimenti da “sovrapporre” a quelli di Jonno e tradurli poi in scimmiesco ha indossato un completo grigio con una rete di Led attaccati col velcro, un casco con un’asta enorme e una cinquantina di marcatori in faccia per non perdere la minima espressione. Anche Jonno Davies, che non aveva mai recitato in motion capture, si è sottoposto alla tortura dell’antenna, della tuta con i Led, e di una serie di scansioni facciali per ricostruire in 3D una maschera che aderisse perfettamente per poi recitare e ballare in assoluta scioltezza.
Francamente certe cose a volte è meglio non saperle per non perdere la magia della visione: Robbie in versione monkey ha dell’incredibile. Non gli somiglia e basta, è lui. Come si muove, come ti guarda. Gli occhi sono pazzeschi. Ma perché proprio una scimmia? Tutte le volte che parlava di sé durante le conversazioni di preparazione si descriveva come una scimmia, «ballo come una scimmia, sono strafatto come una scimmia, mi esibisco per gli altri come una scimmia». Detto con le parole di Robbie: «C’è un momento in cui i meccanismi dell’industria musicale ti chiedono di essere un robot o una scimmia: io ho scelto la scimmia».