Inoltri pericolosiL’ingenuità di Ferragni, gli archivi perpetui e la fine delle relazioni clandestine

Com’è possibile che Chiara F. e Olivia Nuzzi, nate più di duecento anni dopo la marchesa di Merteuil, non sappiano che in questa epoca tutto è salvato, catalogato e soprattutto fotografabile? Per non parlare di Sangiuliano

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Ho il foglio, strappato da un quaderno di carta a quadretti, con cui B. mi lasciò a novembre dell’86. So l’anno e il mese e il giorno perché B. era un tipo preciso, sottolineava quattro volte la frase conclusiva della missiva, «Vai a farti fottere», e poi apponeva la data. Altrimenti, il reperto cartaceo di quell’autunno di trentott’anni fa sarebbe solo un ricordo che fatico a posizionare nel tempo.

È un problema che le tecnologie hanno risolto. Di recente ho potuto rileggere tutte le mail con cui un’amica mi raccontava la sua avventura con un tizio che le cronache del 2024 hanno reso impresentabile, ma nel 2009 non potevamo immaginarlo. Nel Monopoli sul quale ci muoviamo, poter rileggere le mail di quindici anni fa catalogate senz’alcun nostro sforzo è un problema o un’opportunità?

Lo scandalo dei media americani di questa settimana è la sospensione dall’incarico di cronista politica del New York Magazine per Olivia Nuzzi: avrebbe avuto una relazione con Robert F. Kennedy jr., già candidato con verme nel cervello.

Lo scandalo dei media italiani di questa settimana è la diatriba tra Tony Effe, chiunque egli sia, e l’ex marito della Ferragni: ogni tre quarti d’ora esce una nuova canzone, l’uno contro l’altro, tutti contro tutti, ex amicizie, ex matrimoni, rinfacci, piccinerie, materiale per avvocati, roba con cui trent’anni fa si partecipava al “C’eravamo tanto amati” di Barbareschi su Rete4 e oggi si fanno le visualizzazioni su YouTube. 

Lo scandalo dei media italiani della settimana scorsa era la sangiulianeide, di cui ieri in una coda lunga sono usciti i messaggi che l’ex ministro avrebbe allegato alla denuncia nei confronti della bionda di Pompei. Se pensate che queste tre storie non si somiglino, non siete stati attenti.

Kennedy e la Boccia negano le relazioni oggetto di pettegolezzi: il portavoce di lui dice che lui e Olivia Nuzzi si sono visti una volta per un’intervista; la Boccia ha detto che è stato il ministro a parlare di relazione affettiva, ma quando mai. A parte l’essere quindi la Boccia il Kennedy che ci possiamo permettere, e l’interpretare Sangiuliano il ruolo della Nuzzi, qual è il punto in comune?

Le tecnologie, che aboliscono, assieme alla vita privata, anche la clandestinità delle relazioni.

Mentre tutti si chiedevano come mai l’ex ministro si sputtanasse allegando i messaggi alla denuncia, io pensavo alla pigrizia pavloviana con cui Maria Rosaria Boccia era stata descritta come la bionda di “Attrazione fatale”, quando è evidente che è Sangy a essere interpretato da Glenn Close. In una delle scene più famose del film, la bionda dice al personaggio di Michael Douglas «I’m not gonna be ignored, Dan», adattato nel doppiaggio italiano in «Tu non puoi pensare di buttarmi via così, tesoro».

I messaggi «Sono arrivato al punto di non farmi problemi se tu fossi incinta di me, anzi sarei stato felicissimo», «Sarai libero di viverti questa esperienza come vorrai nel rispetto di tuo figlio», sono il «tu non puoi pensare di dire che io questa storia me la sono sognata sospirando mutande cui non mi hai fatto accedere» dell’amante disamato alla sua ex: disposto a sciacquare i panni in procura, pur di non passare per mitomane.

Le prove scritte sono sputtananti da ben prima che B. mi piantasse, e anche se non conoscete la letteratura è sempre la filmografia di Glenn Close ad avervelo raccontato: le trame sessuali e di potere della marchesa di Merteuil vengono svelate dal visconte di Valmont rendendo pubbliche le sue lettere (“Le relazioni pericolose” è su Now, andate a colmare le vostre lacune). Però, proprio come per il foglio di quaderno di B., prima servivano miracoli perché le prove delle nostre turpitudini morali sopravvivessero a tempo e traslochi.

Già con Gmail nasce il problema degli archivi perpetui. Mentre quest’estate rileggevamo le mail di quindici anni fa in cui la tapina la dava all’impresentabile, un’amica ha chiesto: ma tra quindici anni rileggeremo i messaggi tra di noi trovandoci altrettanto imbarazzanti? Tutte abbiamo tremato.

Gli archivi di posta sono un problema minore, rispetto a quello creato da Apple nel 2007. Allorché decisero di rovinarci la vita (o almeno la reputazione) rendendoci facile fotografare la schermata telefonica che abbiamo davanti. Nel 2013, anche WhatsApp decide di rovinarci la vita (o almeno la reputazione), introducendo i messaggi audio.

La facilità e la gratuità sono sempre rovinose, e i casi in esame non fanno eccezione. Se, per fotografarsi allo specchio la fronte scarnificata da un’unghiata della Boccia, Sangiuliano avesse dovuto avere un rullino nella macchina fotografica, e poi avesse dovuto portare le foto a sviluppare e stampare, forse non ci troveremmo con la procura intasata da recriminazioni da fidanzatini tredicenni.

Se, per dire a un antipatizzante del suo ex marito che l’ex marito era intenzionato a far crescere a pagamento gli ascolti delle sue canzoni, Chiara Ferragni fosse dovuta andare all’ufficio postale a mandare un telegramma, ora il suo messaggio non starebbe in una canzone scritta in dodici secondi e messa su YouTube per sputtanare gente a caso.

Se non avessimo tutti preso l’abitudine di flirtare a mezzo foto di vermi, cerebrali e no, ora Olivia Nuzzi non sarebbe costretta ad ammettere d’aver avuto una relazione «mai fisica, ma digitale», ammissione che una che tenga alla propria rispettabilità farebbe solo se messa di fronte a prove. Quali possano essere queste prove è facile indovinarlo: quelle da lei stessa o da Kennedy prodotte. Tutto è inoltrabile, i messaggi vocali in cui la Ferragni parla male dell’ex (come tutti, come tutte: mai come in queste vicende nulla di ciò che è umano è alieno a nessuno di noi), le foto di tette che una manda a quello con cui flirta stolidamente certa che lui non si vanterà con gli amici, eccetera.

E quindi la domanda diventa: ma com’è possibile che non l’abbiamo ancora imparato? Com’è possibile che Olivia Nuzzi e Chiara Ferragni, nate più di duecento anni dopo la marchesa di Merteuil, non sappiano che tutto è inoltrabile? Nel secolo in cui il telefono lo usavamo per telefonare, eravamo assai più paranoici: ogni due battute dicevamo «commissario, sto scherzando», così mitomani da esser certi di venire intercettati.

Credo fosse perché esisteva lo scatto alla risposta. Una telefonata non era gratuita, diversamente dall’invio d’uno screenshot o dall’inoltro d’un messaggio vocale, e quindi ci pensavamo una frazione di secondo in più.

Tutto costava, anche gli studi di registrazione, anche i dischi, e infatti le invettive di trent’anni fa, i “Vecchi amici” di De Gregori o i “Quattro stracci” di Guccini, ancora le cantiamo. Adesso, accendono il telefono, avviano l’autotune, caricano su un social, e dopo ventiquattr’ore “Chiara” ha quasi cinque milioni di visualizzazioni e tutti ma proprio tutti abbiamo sentito Tony Effe dire a Fedez «non ti funziona il cazzo senza Viagra, come l’autotune alla serata». L’abbiamo sentito tutti venti o trenta volte, perché questi giovani del rap italiano hanno un problema di dizione più serio di quello di Zerocalcare, e per capirne gli insulti servono molte repliche – ma non è mica quello, il problema.

Il problema è che, quando è tutto facile e gratuito, la qualità è conseguente, e io sono ventott’anni che ho nel repertorio di dialettica canora «ma poi chi ha detto che tu abbia ragione, coi tuoi “also sprach” di maturazione» o «le vie del mondo ti sono aperte, tanto hai le spalle sempre coperte»; mentre sono ragionevolmente certa che, tra ventotto ore, «non si lascia una mamma sola, sei proprio una brutta persona» me lo sarò dimenticato. Che è quel che una volta potevamo fare con le relazioni – sono certa che B. non si ricordi d’avermi piantata – prima che gli screenshot e gli inoltri le elevassero tutte a materiale da collezione permanente, nei musei di YouTube, della procura, dei giornali.

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