Senso di ribellioneIl capitalismo predatorio della Silicon Valley ha vinto, ma c’è ancora domani

Nel suo podcast “A sense of rebellion” il sociologo Evgeny Morozov lancia una domanda: siamo pronti a rifiutare l’esistenza futura che i colossi della tecnologia hanno pensato per noi?

Brodey in una posa emblematica nel periodo della Contestazione

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Erano gli anni Settanta: quelli della contestazione e della rivoluzione hippie. Le nuove tecnologie – il personal computer, internet, l’Intelligenza Artificiale e il world wide web – erano agli albori o esistevano soltanto a livello teorico. Una fase in cui era quindi ancora possibile immaginare un modello digitale diverso da quello che, partendo proprio dalla Silicon Valley, sarebbe diventato dominante in tutto il mondo.

Le alternative, in effetti, c’erano: il progetto ipertestuale Xanadu di Ted Nelson, che a partire dagli anni Sessanta iniziò a immaginare una sorta di world wide web molto più ricco di quello che, decenni dopo, sarebbe stato portato a compimento da Tim Berners-Lee; il Cybersyn, progettato in Cile durante la presidenza Allende nei primi anni Settanta e che sarebbe dovuto diventare una rete di computer in grado di gestire la transizione da un’economia capitalista a una socialista; e infine l’Environmental Ecology Lab di Warren Brodey e Avery Johnson, un laboratorio tecnologico di ispirazione hippie – sorto alla fine degli anni Sessanta sul lungomare di Boston – in cui si progettavano soprattutto “ambienti intelligenti” e tecnologie che ambivano a estendere le capacità sensoriali e relazionali dell’essere umano, invece di permetterci soltanto, come avviene oggi, di essere più produttivi.

Il documento di riconoscimento dello psichiatra durante il suo soggiorno in Cina, dove ha formato un gruppo di insegnanti biomedici

Non è ovviamente un caso che tutti questi progetti – queste strade non percorse della rivoluzione tecnologica – siano sorte negli anni della contestazione e della controcultura. E non è nemmeno un caso che a studiare e a raccontare alcune di queste esperienze sia stato Evgeny Morozov: sociologo bielorusso da tempo residente in Italia e che da oltre dieci anni rappresenta una delle più autorevoli voci critiche della Silicon Valley.

Dopo il podcast Santiago Boys dedicato al progetto cileno Cybersyn (prodotto da Chora Media nel 2023), adesso è il turno di A sense of rebellion: dieci episodi prodotti da Post-Utopia che raccontano genesi, filosofia, criticità ed eredità dell’Environmental Ecology Lab, mostrando ancora una volta come una visione diversa del mondo digitale fosse (e quindi sia) immaginabile. Che c’è stata una fase in cui era ancora possibile che le nuove tecnologie fossero progettate allo scopo di estendere le abilità umane e di migliorare la nostra relazione con ciò che ci circonda, invece di essere al servizio della «infinita spirale ascendente del tecno-capitalismo» (come immagina il potentissimo investitore della Silicon Valley, Marc Andreessen).

E allora perché le cose sono andate diversamente? Perché il progetto dell’Environmental Ecology Lab (EEL) è stato archiviato e addirittura dimenticato? «In parte ha a che fare con le personalità problematiche coinvolte: Warren Brodey, negli anni successivi alla chiusura del laboratorio, arrivò anche a ripudiare il lavoro svolto. Soprattutto, però, l’EEL non ha mai ottenuto i miliardi che hanno ricevuto le realtà della Silicon Valley, anche per il rifiuto di Brodey a collaborare con il complesso industriale militare e con istituzioni come il MIT di Boston.

Lo psichiatra durante un viaggio in Europa con la moglie

Si è investito molto poco nella visione alternativa del EEL e invece moltissimo in quella della Silicon Valley, la cui prospettiva e i cui prodotti – per quanto siano detestabili per la concezione di condizione umana che ne sta alla base – di conseguenza funzionano e hanno avuto successo», spiega Evgeny Morozov.

Warren Brodey (psichiatra di formazione, diventato prima hippie e poi militante maoista), Avery Johnson (erede della fortuna Palmolive, ingegnere elettronico con competenze in neuropsicologia) e il finanziatore Peter Oser (discendente della dinastia Rockefeller) erano infatti mossi prima di tutto dai valori: «La loro era una ribellione hippie contro l’establishment, con l’obiettivo di dare vita a quelle che chiamavano pratiche ecologiche», prosegue Morozov.

Ecologia non nel senso di studio e protezione della natura, ma di comprensione e valorizzazione della complessità delle cose, della traiettoria non lineare che in esse emerge, della loro capacità auto-organizzativa: «Per loro, tutto ciò significava che anche l’essere umano non deve seguire un percorso prevedibile, ma creare il proprio e svilupparlo in modo unico. I computer avrebbero dovuto essere gli abilitatori di questa varietà: non avrebbero soltanto dovuto permetterci di fare di più ed essere più efficienti, ma anche di accelerare la proliferazione delle diverse identità e pratiche, massimizzando la nostra capacità di percepire a livello sensoriale».

La fonderia in Norvegia dove Brodey conduceva gli esperimenti sul rapporto uomo-macchina per la Norwegian Technical University

Una visione eco-tecnologica che prende avvio dai lavori che Brodey aveva svolto con i ciechi nei suoi anni dedicati alla psichiatria, e che gli avevano permesso di capire come, usando l’udito, il tatto e l’olfatto, essi sviluppassero delle capacità percettive che permettevano loro di notare ciò che la maggior parte di noi non era in grado di notare. Ciò, secondo Brodey, significava che le persone normo-dotate affrontassero tutta la loro vita senza sviluppare al massimo le capacità sensoriali. «Era questo il loro obiettivo: progettare non macchine più intelligenti, ma ambienti, materiali e interfacce intelligenti, in grado di aumentare le capacità umane», spiega l’autore di A sense of rebellion, «il loro progetto riguardava quindi esclusivamente l’essere umano».

Fin qui, l’aspetto teorico. C’è però anche un lascito concreto del lavoro dell’Environmental Ecology Lab: da una parte, racconta Morozov, c’è la grande influenza esercitata all’epoca su figure come Nicholas Negroponte, che nel 1985 ha fondato il celebre Media Lab, il laboratorio di ricerca tecnologica del MIT; dall’altra, ci sono i prototipi costruiti da EEL, di cui purtroppo non è rimasto nulla di tangibile, ma che si possono vedere nei filmati dell’epoca che documentano quell’esperienza: «Uno di questi prototipi era un abito per la danza che permetteva di modificare la musica mentre ballavi. L’idea era di rendere tutto interattivo, in un modo che ci avrebbe permesso di influenzare la musica e di poterla così in qualche modo padroneggiare».

Molti dei prototipi di Brodey e Johnson avevano a che fare con la tecnologia dei materiali, in particolare con quello che chiamavano soft control: un materiale brevettato nel 1974 che cambiava forma interagendo con il calore umano, permettendo di creare materassi intelligenti, poltrone intelligenti e altre cose. «L’obiettivo finale era collegare questi materiali a dei computer, allo scopo di programmare il modo in cui potevano cambiavano forma».

Immagine tratta da un articolo accademico di Warren Brodey

Era questa la visione di fondo – ecologica e cibernetica – che permeava tutto il loro lavoro, teorico e pratico. L’idea che esseri umani, ambiente, architettura, materiali e tecnologie dovessero entrare in relazione gli uni con gli altri: una visione che oggi, almeno parzialmente, sopravvive per esempio nelle teorie della embodied AI, secondo la quale è impossibile sviluppare una vera e propria intelligenza artificiale almeno finché questi sistemi non saranno veramente in grado di interagire e relazionarsi con il mondo fisico. Non tutto il lavoro di Brodey e Johnson è stato quindi perduto e la loro eredità in parte sopravvive ancora oggi, in un mondo in cui però il modello della Silicon Valley, quello che Morozov definisce “soluzionismo tecnologico”, ha trionfato e l’obiettivo non è più espandere la nostra umanità, ma semmai renderci più simili a macchine: più efficienti, più rapidi, più produttivi, più misurabili. Finché, magari, chi si trova in cima alla catena economica non sarà in grado di sostituirci direttamente con esse.

«Un’alternativa, però, è ancora possibile», conclude Morozov. «Richiede invero, su scala macro, svariati finanziamenti e un intenso impegno geopolitico, oltre all’abilità di spiegare perché siamo consapevoli di non volere vivere nel mondo progettato dai colossi tecnologici. A livello micro, richiede anche la nostra strenua capacità di confrontarci con progetti come quello che racconto nel mio podcast, perché ci mostrano che una forma diversa di interazione e smartness sarebbe davvero potuta esistere. La visione di Brodey e di Johnson della tecnologia, e di come gli utenti connessi avrebbero potuto e dovuto interagire con essa, era molto più accurata e autenticamente umanistica di quella attuale. Che, fondamentalmente, oggi mira soltanto a fornirci gli strumenti necessari a portare avanti gli interessi della Silicon Valley».

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