Caffè più cornetto (o brioche, o croissant, come – e dove – lo si voglia chiamare) è il binomio che rappresenta la classica colazione all’italiana. Che di solito si fa fuori casa: è difficile avere le capacità (e la voglia) di prepararsi un lievitato o uno sfogliato tra le mura domestiche. Un’abitudine che si è fatta sempre più saltuaria. Un po’ perché mangiarsi quotidianamente quasi un panetto di burro si è capito che non fa molto bene alla salute, un po’ perché si sta trasformando in un’esperienza da vita lenta, adatta al weekend e ai giorni festivi, seduti in pace con altre persone tra i tavoli di una caffetteria o pasticceria, e non di fretta al bancone di un bar anonimo.
Certo, c’entra anche il prezzo. Se ogni decina di centesimi aggiunta al classico euro del caffè fa sobbalzare i più, l’effetto che fa il rincaro sul cornetto di accompagnamento non è da meno. Arrivare a due/tre euro per una brioche sembra quasi un’eresia, mentre allo stesso tempo il consumatore moderno si aspetta una qualità sempre più alta. Secondo un’indagine di Altroconsumo svolta a maggio 2024, rispetto al 2022 le brioche – che siano vuote o farcite – costano in media il 13 per cento in più e rappresentano il 68 per cento delle scelte di chi decide di fare colazione fuori casa. Sembra già un incremento notevole, ma in realtà non basta.
Il parere degli esperti
«I consumatori oggi sono orientati verso il valore, ed è il momento di fargli capire che il prezzo va di conseguenza», spiega Davide Longoni, titolare dell’omonimo panificio. «Aspettarsi dei prezzi bassi per una brioche o cornetto la possiamo considerare distorsione del consumismo del Novecento, che in qualche maniera dobbiamo per fortuna dimenticare, sia per l’apporto calorico che per il prezzo. Una sfoglia o lievitato deve costare almeno 2,50/3 euro per esprimerne il corretto valore. Il prodotto va preso in mano almeno sette/otto volte prima di arrivare al risultato finale e si tratta di un’alta intensità di lavoro manuale e non meccanizzata. Per non parlare degli aumenti di burro e uova in primis, che nel mercato globale hanno subito rincari esponenziali nel corso dell’ultimo anno». Solo nel 2024, infatti, il segmento burro – dopo un lungo periodo caratterizzato da fluttuazioni più contenute – ha visto un’accelerazione nei costi a partire da metà anno, arrivando a toccare valori record sopra gli otto euro al chilogrammo.
Ma non sono questi gli unici fattori da prendere in considerazione. Luciano Sbraga, vicedirettore di Federazione Italiana Pubblici Servizi e direttore del Centro Studi Fipe spiega che «il vero problema per un esercente non nasce quasi mai dagli aumenti delle materie prime alimentari (a meno che non si tratti di aumenti eccezionali), ma da altre fonti di costo (affitti, personale, mutui, ecc.). È vero che il consumatore ha abitudini e consuetudini ormai consolidate e sembra impossibile cambiare al rialzo certi prezzi, ma quello su cui cerchiamo di sensibilizzare gli esercenti è che gli aumenti vanno fatti quando andrebbero fatti, ovvero quando i costi superano i ricavi perché aumentano i prezzi degli ingredienti, della manodopera (tema centrale per la ristorazione nel post Covid), delle utenze e degli affitti. L’inflazione nei bar e caffetterie, negli ultimi tre anni, si è fatta sentire meno della media generale del 2022 e 2023, ma è una tendenza che non potrà durare a lungo e i prezzi prima o dopo dovranno essere alzati: è necessario un controllo di gestione puntuale per non avere dei rincari random e tutti in una volta, ma abituare e spiegare bene al consumatore iniziative e ragioni».
Come si è fatto per il pane, anche la colazione all’italiana ha bisogno di uno storytelling se vuole sopravvivere e, anzi, raggiungere nuovi vertici di eccellenza: «Sul pane, io e altri panificatori ce l’abbiamo fatta ad allargare sempre di più quella che era una nicchia che capisce e chiede un prodotto con filiera controllata, ingredienti e preparazioni che non sviliscono né il contadino né la salute di chi lo porta in tavola. Anche per i lievitati e sfogliati da colazione c’è sempre più bisogno di un’azione simile. Poche occasioni, ma buone e di qualità, con un prezzo che rispecchia cosa c’è sulla tavola», aggiunge Longoni.
Rocco Cannavino, specializzato proprio in cornetti e brioche, è dell’idea che «10/15 anni fa si guardava più al prezzo del prodotto che alla qualità, cosa che pian piano sta cambiando. La differenza tra una cosa costosa e una cosa cara è che il prezzo di quella cara non rispecchia la bontà/qualità del prodotto, mentre il prezzo di quella costosa sì. Quello che fa alzare il prezzo dei lievitati non sono solo le materie prime che si utilizzano, ma anche i professionisti che mettono la loro mano. Un professionista, a livello gestionale, costa di più all’azienda di un giovane o autodidatta, ma tutta un’altra esperienza nel mestiere. Quindi ingredienti di qualità e il professionista che li maneggia/manipola fanno la differenza. A mio parere, da qui a cinque anni, chi non si formerà sui lievitati e terrà il passo della qualità, si troverà con una clientela che non guarderà più (solo) al prezzo, ma adotterà come base la filosofia del poco ma buono».