Epico menestrelloPerché abbiamo ancora bisogno delle moltitudini (e delle contraddizioni) di Bob Dylan nel 2025

“Blood on the tracks” ha compiuto cinquant’anni ricordandoci il miracolo di Robert Zimmerman, che si è fatto caleidoscopio dell’esperienza umana, senza assomigliare mai a nessuno (neanche a se stesso)

Bob Dylan nel 1974 al Forum di Los Angeles. LaPresse

«Contengo moltitudini», non l’ha detto per primo Bob Dylan, il menestrello di Duluth che oggi viene celebrato nella sua imperscrutabilità affascinante nel film “A complete unknown” di James Mangold. La frase originale è del poeta per eccellenza dell’epopea americana: Walt Whitman, che la scrisse nella sua “Song to Myself”, poesia contenuta nel seminale volumetto “Leaves of Grass”. E però Bob Dylan assomiglia a quella frase forse più di quanto è sembrato assomigliare a se stesso, nel corso dei suoi ottantatré anni di vita e più di sessanta di carriera cantautoriale.

In effetti quel verso di “Song to Myself” Dylan l’ha usato anche per titolare una sua omonima canzone del 2020: “I contain multitudes” dall’album “Rough and Rowdy Ways”, dove certo, era palese il riferimento a Whitman, ma nella migliore tradizione dylaniana non mancavano un’orgia di citazioni e riferimenti culturali mescolati insieme, da Edgar Allan Poe ad Anna Frank, passando per Indiana Jones e i Rolling Stones, e ancora il poeta William Blake, le sonate di Beethoven e i preludi di Chopin, ma pure gli “Young dudes” di David Bowie e Mott the Hoople. Di recente sono però altre le composizioni del suo vasto repertorio che si celebrano: da poco ha compiuto cinquant’anni “Blood on the tracks”, disco pubblicato nell’anno del Signore 1975, oggi considerato dai critici di settore uno dei prodotti musicali più rilevanti di sempre, capace di rivaleggiare con la produzione dylaniana degli anni Sessanta, quella che aveva concepito l’inno del movimento pacifista “Blowin’ in the Wind”, “Like a Rolling Stone”, “Desolation Row”, solo per citarne alcune (d’altronde Dylan è in una categoria a parte, ed è difficile metterlo a paragone con un Dylan precedente o successivo, figurarsi con altri artisti).

Chi scrive non ha – ancora – visto il film di Mangold, ma ha comprato quel disco in formato compact disc nei primi anni del 2000, inciampandoci quasi per caso. Composto da dieci canzoni, passò alla storia come l’album della rottura: si intendeva qui la fine della relazione con sua moglie Sara Lownds, con la quale era convolato a nozze in segreto nel 1965 – in segreto anche dalla sua ex, Joan Baez, però poi arrivo Nora Ephron l’anno dopo che scrisse per il New York Post «Silenzio! Bob Dylan si è sposato». Persino Jakob Dylan, uno dei quattro figli della coppia, disse «Quando sento “Blood on the Tracks”, bè, parla dei miei genitori». Affermazioni filiali che Bob Dylan, allergico a qualunque tipo di riverbero autobiografico nel suo repertorio, ha sconfessato. Le canzoni erano ispirate a delle novelle di Čechov (lo disse nel 2004 nel suo memoir “Chronicles – Volume 1”), ma poi nell’album “Bob Dylan at Budokan” (1983) quando esegue “Simple Twist of fate”, esordisce con «è una storia d’amore, è successa a me» (e però probabilmente si riferiva alla relazione con Suze Rotolo). Insomma, il solito labirinto di Cnosso dylaniano, nel quale ti perdi tra negazioni e supposizioni, e l’unica cosa che rimane davvero importante è la poesia che la vita reale o il suo infinito ingegno ha prodotto.

E infatti, quando chi scrive ascoltò quell’album per la prima volta, a vent’anni circa – un album di un uomo che all’epoca ne aveva trentaquattro e che rifletteva, alienandosi da se stesso o forse no, sulla fine di un rapporto che si immaginava eterno – non fu un’ossessione ricorrente quella di scoprirne i retroscena pruriginosi, cercare foto di questa Sara Lownds sul web (una donna bellissima, ovviamente, che aveva iniziato come modella per poi apparire su Harper’s Bazaar), o ridere sulla mancanza di prospettiva di Jon Landau, uno che poi sarebbe divenuto il produttore di Bruce Springsteen e che di quell’album, su Rolling Stone, scrisse «lo si potrà considerare un grande album solo per un po’, ha la qualità dell’impermanenza».

Bob Dylan. LaPresse

La grandezza impareggiabile di quell’album, oggi come ieri, risiede nel suo essere universale, di tutti (compreso di chi era ancora troppo giovane per capirne appieno ogni sfumatura) e per questo realmente di nessuno, sicuramente non del personale di Dylan. Personale o meno, anche Dylan conveniva sul fatto che si trattasse comunque di un’opera frutto di un certo grado di sofferenza, e lo lasciava abbastanza stupito che il pubblico lo apprezzasse. In un’intervista alla radio nel 1975 con Mary Travers – cantante folk del trio Paul, Peter and Mary – affermò «molta gente mi dice che hanno amato l’album. È difficile per me comprenderlo, voglio dire, è difficile per me pensare che alla gente piaccia quel tipo di dolore».

La realtà è che quelle dieci canzoni mettono in versi il caleidoscopio abbagliante di emozioni che si sperimentano in una storia d’amore che volge al termine, ed è un lavoro talmente lineare e diretto, che colpisce anche chi, per mancanza di esperienza, non ha provato ancora la metà di quelle esperienze sublimi e strazianti. Sulla copertina appare una foto del cantante scattata da Paul Till a un concerto a Toronto l’anno prima, poi solarizzata e dipinta con acquerelli, mentre il nome dell’album e del suo autore sono riportati sul lato sinistro, su uno sfondo colorato di borgogna, a ricordare probabilmente il sangue sulle tracce, lasciato da chi fa spurgare una ferita per liberarsi dal dolore, e permettere alle cicatrici di fare il loro mestiere.

“You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go”, con l’armonica che apre il brano con una certa irruenza, sottolinea lo stato di esaltazione nella quale si ritrova chi si innamora, e lo capisce sin da subito, che quel rapporto è destinato a lasciare una traccia ben più importante delle altre sul suo percorso personale, pur nella certezza tipicamente di Dylan, che quel momento paradisiaco finirà presto e rimarrà solo la solitudine («Relationships have all been bad / mine have been like Verlaine’s and Rimbaud’s / but there’s no way I can compare / all them scenes to this affair / you’re gonna make me lonesome when you go»); in “Shelter from the Storm” la donna amata si trasforma in una Beatrice dantesca, salvifica nel suo offrire riparo dalla tempesta (e infatti un riferimento implicito a Dante è presente pure in “Tangled up in Blue”, quando si cita «un libro di poesie di un poeta italiano del tredicesimo secolo, le cui parole risuonano così oneste da luccicare come carbone ardente, come se fossero state scritte nella mia anima, da me per te»); “You’re a Big Girl Now”, con quella sua struttura da ballata folk spagnola, risuona invece come la malinconica ammissione che la donna amata è semplicemente cresciuta, divenendo più grande e complessa di quel santino nel quale l’autore aveva voluto, involontariamente, ingabbiarla, causando un dolore a corrente alternata, diviso tra la speranza di rimettere a posto le cose («I can change, I swear») e la consapevolezza che l’esito di quegli sforzi sarà purtroppo differente («It’s a pain that stops and starts / like a corkscrew to my heart / ever since we’ve been apart»).

La rabbia – fase precedente alla contrattazione nel percorso dell’elaborazione di un lutto – è la forza che guida invece “Idiot wind”, evoluzione maligna di quello stesso vento che poco meno di quindici anni prima, soffiava portando risposte (quelle della celeberrima “Blowin’ in the Wind”). “Simple Twist of Fate” è invece una breve storia triste, un incontro fortunato, o appunto, uno scherzo del destino, che avrebbe potuto cambiare il corso della vita dell’autore, e che invece poi si tramuta in un silenzioso addio carico di rassegnazione e rimpianto, sussurrato da un amante che si alza ritrovando la stanza vuota («He felt a emptiness inside / to which he just could not relate / brought on by a simple twist of fate»); “If You See Her, Say hello” è l’evoluzione di “Girl from the North Country” di “The Freewheelin’ Bob Dylan” (la sua versione più famosa è certamente quella in duetto con Johnny Cash, eseguita in tv al Johnny Cash show nel 1969).

Se la ragazza del nord della canzone iniziale è un amore passato dell’autore, che chiede a chi passerà da quelle parti di salutarla da parte sua – verificando che la donna indossi ancora i capelli sciolti come una volta – quella di “If You See Her, Say Hello” ha deciso di partire alla volta di Tangeri, e Dylan le riconosce il coraggio delle scelte difficili che ha preso, nel nome della libertà («If you get close to her / kiss her once for me / always have respected her / for doin’ what she did and gettin’ free»).

Un lavoro ancora più magnificente, se si pensa alla sua semplicità: certo, con Dylan anche il concetto di semplicità è relativa. Se però si paragona l’epica di “Desolation Row” – anno domini 1965, undici minuti di canzone definita come una delle più grandi vette di lirismo poetico mai raggiunto, coverizzata dai Grateful Dead ma pure da De André in una versione italiana chiamata “Via della povertà” – alla ballata western di “Lily, Rosemary and the Jack of Hearts”, tra banditi che rapinano una banca, ricchi manigoldi proprietari di miniere di diamanti, soubrette del cabaret dalla pelle diafana e giudici che si presentano al bancone del bar già alticci, la differenza risulta lampante. “Blood on the Tracks” diventa così l’album che racconta l’epopea di un eroe ferito, imperfetto, che fa del suo dolore la sua unica arma, quella con la quale affrontare l’incertezza del futuro e le delusioni delle notti solitarie che lo attendono. Un percorso nel quale possono identificarsi tutti, anche quelli che trovano eccessivamente criptica molta della produzione dylaniana precedente, ma pure successiva.

Bob Dylan. LaPresse

Chi scrive, ad esempio, lo ha ascoltato per la prima volta da giovane adulta, provando un doloroso senso di prescienza, nella consapevolezza che il futuro le avrebbe riservato lo stesso amaro destino dell’autore (diverso da lei per genere, età, formazione, geografia e cultura e almeno un’altra decina di motivi). E quando oggi, per caso, parte la riproduzione di “A Simple Twist of Fate”, si avverte ancora quel groppo in gola che si forma quasi in autonomia, come se il corpo rispondesse a uno stimolo uditivo, di cui riconosce istintivamente il richiamo. La differenza è che, vent’anni dopo quell’iniziazione, si ha la piena consapevolezza che Bob Dylan, semplicemente, aveva ragione: non ci si abitua mai al dolore, si impara soltanto a spegnerlo, di tanto in tanto, chissà se è perché si è sempre stati troppo sensibili, o forse con l’età ci si rammollisce, come dice lamentandosi in “If You See Her, Say Hello”.

Solo cinque mesi dopo l’uscita di “Blood on the Tracks” venne pubblicato il successivo album di Dylan, “The Basement tapes”, e la geografia della sua opera, nei significati e nella musica, si rivoluzionò nuovamente, come se quell’album precedente fosse stato solo un treno di passaggio, che gli aveva concesso, ancora una volta, di vivere nel suo eterno presente, dove il passato è irrilevante, si può rinnegare e ricostruire. Cambiando volto per sopravvivere, senza perdere mai la faccia.

È ironico che a interpretarlo sia l’attore che sembra, sulla carta, quello meno adatto. Laddove Bob Dylan, per tutta la carriera, ha rifiutato di definirsi, di assomigliare anche solo per un attimo a un’immagine di se stesso intorno alla quale il pubblico potesse costruire un santino da venerare – anche a costo di essere criticato, detestato, rinnegato da chi lo aveva assunto a profeta di una generazione – Chalamet si bea pacioso nella moltiplicazione dei suoi replicanti, presentandosi ad un concorso per suoi sosia a New York. Ma probabilmente non è neanche importante al fine di una pellicola che racconta un momento specifico – quello della svolta elettrica – nella vita di un uomo che ha esplorato ogni possibilità senza mai affezionarsi troppo ad una versione sola di se stesso. È stato lo stesso Dylan a commentare, con parole sibilline su X «Timmy è un attore brillante, sono sicuro che sarà completamente credibile nei miei panni. O in quelli di un me più giovane. O in una qualche altra versione di me».

Secondo l’Hollywood Reporter, che ha intervistato il regista James Mangold, ma anche Thimotée Chalamet, Dylan non ha visto il film, così come non ha mai visto nessun documentario o opera cinematografica che lo riguardi, e non ha mai parlato con l’attore che lo interpreta. In fondo Robert Allen Zimmerman è sempre stato un mistero inafferrabile persino per se stesso, e ha vissuto tutta la sua vita nella convinzione irremovibile che l’unica cosa stabile fosse il cambiamento. Ha abbracciato con una sardonica serenità il caos, non sentendosi mai in colpa per le sue contraddizioni – forse il lato più umano e universalmente comprensibile del premio Nobel per la letteratura –, concedendosi il piacere di cambiare immagine, genere, fede religiosa. D’altronde, come diceva Walt Whitman «Mi contraddico? Molto bene, allora mi contraddico! Sono largo, contengo moltitudini».

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