Diventare grandiLa povera Anne, e la crudele credulità del mitomane che è in noi

Una mia coetanea francese è andata in rovina perché uno le ha scritto sull’internet che era Brad Pitt; lei ci ha creduto e gli ha pagato ottocentotrentamila euro di spese mediche. Un caso meno patologico dei disgraziati nostrani convinti che la felicità sia avere la foto con un famoso. Forse è il caso di lavorare non sul senso di realtà delle notizie, ma sul nostro

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Di recente, nel mio lessico famigliare è entrata «Peter Gabriel non c’ho la foto», una frase che nessuno dei miei cari aveva sentito fino a non molto tempo fa e che ora basta dire per far ridere tutti alle lacrime.

«Peter Gabriel non c’ho la foto» l’ha detta l’uomo più disperato tra quelli di cui guardo i social, uno che ostenta sicurezza e autostima e vanità, e in realtà vorrebbe essere chiunque, possibilmente chiunque di famoso ma anche chiunque di meno logorato dalle smanie, chiunque ma non sé stesso.

«Peter Gabriel non c’ho la foto» l’ha detta una volta che stava spiegando alla telecamera del telefono quanta gente famosa conosce, convinto com’è che conoscere gente famosa lo faccia brillare d’una qualche luce, d’una qualche qualità, d’un qualche valore riflesso. Il dramma è che non ha torto.

Non ha torto perché anche le sindromi psichiatriche vanno adattate alle condizioni del mondo (guardate cos’è successo con la transessualità), e quindi le relazioni parasociali – l’illusione di Tizio che se solo riuscisse a passare abbastanza tempo in presenza di Peter Gabriel da farci la foto la sua vita cambierebbe, e le illusioni di tutti gli infelici come lui – vanno considerate nel contesto d’un mondo convinto che la fama sia la più importante delle valute. Che camminare per strada senza il superpotere dell’invisibilità sia un’ambizione, mica un incubo.

(Credo d’aver già scritto che la convinzione mia che la fama sia un inferno di solito viene respinta dai famosi con la linea di difesa «ti trovano sempre un tavolo al ristorante», e chissà che trauma hanno tutti coi ristoranti, chissà che digiuni senza prenotazione. Qualche mese fa ho amato più che mai Kieran Culkin perché una sua intervista su Vogue cominciava col ristorante che non faceva sedere lui e l’intervistatrice giacché privi di prenotazione).

In questo contesto, Anne non è neppure un caso così patologico. Anne è la tizia francese – mia coetanea, arredatrice d’interni – che l’altra sera ha raccontato a TF1 che è andata in rovina perché uno le ha scritto sull’internet che era Brad Pitt e voleva sposarla, e lei ci ha creduto, e gli ha pagato ottocentotrentamila euro di quelle che dovevano essere cure mediche che il tapino non poteva pagarsi da solo perché Angelina gli aveva congelato i conti.

Lo so che fa ridere, e lo so che fa anche vergognare mentre si ride perché dai, per credere a una cosa del genere devi stare malissimo e noi non dovremmo prenderti in giro. Tanto più che il servizio di “Sept à huit” è stato tolto dall’internet perché aveva causato molestie nei confronti della povera Anne, come già non fosse abbastanza inguaiata. Anne dice che l’ha raccontato perché potrebbe cascarci chiunque, e a me viene in mente Charlotte Cowles, la giornalista finanziaria che un anno fa raccontò, nell’articolo più incredibile che abbia mai letto, di come aveva messo cinquantamila dollari in una scatola da scarpe e li aveva consegnati a uno sconosciuto convinta che gliel’avesse ordinato l’Fbi.

Per giorni – per settimane – tutti gli americani che leggo sui social avevano parlato di questa vicenda, e la posizione di molti era: c’è poco da ridere, se è successo a lei che è una donna intelligente e avvertita, potrebbe succedere a tutti. E a me pare sempre ridondante dire che una cosa può succedere, quando è appunto successa, ma mi sembra ci voglia un livello di ottusità davvero notevole per cascarci nelle circostanze della Cowles (la chiama una presunta operatrice di Amazon dicendo che risultano degli addebiti a suo nome, ah non sono suoi?, allora è furto d’identità, aspetti che le passo Tizio dell’Fbi, buongiorno sono Tizio, senza riattaccare vada in banca e prelevi quel che le serve per vivere un anno, perché tra poco le dovremo congelare i conti per quest’indagine sul furto d’identità, poi metta i contanti in una scatola e li dia al mio collega senza guardarlo in faccia mi raccomando, poi glieli ridiamo).

La storia di Anne non somiglia alla storia di Charlotte. La storia di Anne somiglia a uno screenshot che ho visto girare qualche tempo fa, «sono Solange Knowles, ho bisogno di soldi per riuscire ad arrivare nella tua città, qui con me c’è anche Beyoncé», messaggio successivo dallo stesso numero «ciao, sono Beyoncé». Se queste truffe continuano, vuol dire che anche solo una persona su un milione ci casca. E, secondo me, dei meccanismi di questo uno su un milione sbagliamo l’analisi.

Certo che dei multimilionari famosi in tutto il mondo difficilmente hanno bisogno d’un prestito per le piccole spese. Certo che se ne hanno bisogno avranno un commercialista una segretaria un parrucchiere una zia cui chiedere. Ma la vera domanda che non si fanno le Anne del mondo temo sia: ma perché Brad Pitt dovrebbe scegliere me?

Quando John Taylor, bassista dei Duran Duran e figo supremo degli anni Ottanta, stava con Renée Simonsen, modella danese supercalifragilistica, io ero davvero convinta che, se solo mi avesse vista, l’avrebbe lasciata per me. Ma io avevo dodici anni. Anne ne ha cinquantatré. Non solo ha versato ottocentotrentamila euro per le cure d’un Brad Pitt che la voleva sposare pur non avendola mai incontrata: ha pure lasciato il marito (i soldi che ha versato al presunto Pitt sarebbero, secondo i giornali francesi, quelli ricevuti come liquidazione dall’assai ricco marito: il signore te la dà, il signore te la toglie).

La storia non è chiarissima, giacché Anne, scontenta del montaggio di TF1, è andata su YouTube a dire che la televisione ha celato il fatto che lei aveva capito benissimo che le foto di “Brad” erano false. I fotomontaggi pubblicati in effetti sembrano fatti da me che tento di imparare a usare Photoshop (ho letto che sono fatti con l’intelligenza artificiale, che se non sa fare di meglio direi che possiamo smettere di preoccuparci).

Quegli ottocentomila e spicci i truffatori se li sono guadagnati con mesi di lavoro. Prima fingendosi la madre di Brad, poi presentandole il figlio, il tutto con dei video di quel genere che si chiama deepfake, e che gli esperti sostengono manchino pochi anni a rendere a prova di verifica: presto nessun software sarà più in grado di dirci se quello che ha bisogno d’un prestito proprio da noi sia Brad Pitt o Tonino l’elettrauto.

E quindi forse, ma capisco sia più fastidioso e meno popolare delle discussioni da salotto sul fact-checking, è il caso di lavorare non sul senso di realtà delle notizie ma sul nostro. Sul diventare grandi e smettere di credere che, se fossimo Kieran Culkin, non avremmo bisogno di prenotare al ristorante. Sul diventare adulte e non credere che un musicista che non ci conosce lascerà la fidanzata fotomodella per noi. Sul diventare un’umanità abbastanza risolta da non illudersi che avere la foto con Peter Gabriel sia tutto ciò che la separa dalla realizzazione personale.

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