Degli attori ha smesso d’importarmi da tantissimi anni. Dico: sono attori. Gente pagata per fare le facce. Gente che non è in grado di articolare un pensiero proprio e quindi si trova un lavoro in cui dire parole altrui. Quando eravamo una società più seria, venivano sepolti in terra sconsacrata.
Ci sarebbe da chiedersi se, quand’ero più giovane, m’importasse degli attori (di alcuni, pochi) perché da piccola sei meno selettiva, o perché gli attori erano gente come Jack Nicholson, e insomma non è che ci vogliano trattati di estetica per capire perché a una giovane donna dagli ormoni sani possa interessare Nicholson e non, chessò, Chalamet.
Dei premi so precisamente quando ho smesso d’interessarmi. Alcuni amici ancora si ricordano che a casa mia si guardavano gli Oscar in diretta, svegli fino alle cinque, alle sei di mattina, mangiando qualunque cosa (eravamo troppo giovani per avere il reflusso), con opinioni perentorie su chi avrebbe dovuto vincere. Sembra (è) una vita fa.
Quando nel 2017 è arrivato il MeToo, alcune hanno gioito perché Harvey Weinstein era un porco, lo sapevano tutti, era un prepotente, era un mostro, ed era pure brutto come la fame (nessuno è ancora riuscito a convincermi che se Weinstein fosse stato non dico Gary Oldman nella vita – un figo stratosferico – ma anche solo il Gary Oldman di “Slow Horses” – devastato ma fascinoso – l’opinione pubblica sarebbe stata più clemente).
Io ho pensato che aveva quel che meritava solo perché sei anni e mezzo prima mi aveva fatta stare sveglia per l’ultima volta, e invano. Sei anni e mezzo prima, nel 2011, l’Oscar avrebbe dovuto vincerlo “The Social Network”, il miglior film di questo secolo (sì, ancora oggi, e nonostante dopo ci siano stati “The wolf of Wall Street” e “Il filo nascosto” e “Birdman”). E invece Harvey Weinstein aveva fatto per l’ultima volta ciò che sapeva fare Weinstein da vivo, imporre agli Oscar un proprio film, e il re balbettante aveva vinto tutto (ovviamente io “Il discorso del re” non l’ho mai visto: quando sono fanatica, lo sono fino in fondo).
L’unico premio rilevante “The Social Network” l’aveva vinto per la sceneggiatura, e voi direte vorrei pure vedere, ma era accaduto solo perché teoricamente era un adattamento e quindi il re balbettante aveva potuto prendere il suo bravo premio nella categoria delle sceneggiature originali. Però, persino in quell’ultima notte sveglia a guardare l’ultima premiazione della mia vita, dell’attore non me ne fregava niente.
Non perché Jesse Eisenberg non fosse pazzescamente Mark Zuckerberg, figuriamoci: per me Mark Zuckerberg ha la faccia di Eisenberg, mica la propria. Ma perché, appunto: attori. Non mi ero neppure turbata per la mancata candidatura di Justin Timberlake, che incarnava così alla perfezione quel rigo di sceneggiatura che diceva «chi è questo ragazzino di ventidue anni che fa un’entrata come fosse Sinatra?».
L’ultima volta in cui mi era importato qualcosa degli attori era un giorno di fine 2003 in cui mi avevano mandata a intervistare Jack Nicholson in una stanza d’albergo di New York, e lui aveva un cachemire blu con cui avevano pasteggiato le tarme. Un’intervista inutile, giacché io ero troppo giovane e scema per parlare dell’unica cosa interessante, cioè di come una liceale degli anni Ottanta aveva potuto guardare “Conoscenza carnale” e specchiarsi in lui, mica in Candice Bergen, guardare “Le streghe di Eastwick” e specchiarsi in lui, mica in Michelle Pfeiffer.
Non mi è mai più importato nulla d’un attore (vabbè, quasi mai più: escluso Philip Seymour Hoffman, escluso Kevin Spacey – parlando di entrambi da vivi), quasi mai più, dicevo, fino al giorno d’inizio 2023 in cui è arrivata la mail della Hbo che diceva queste sono le puntate le puntate dell’imminente ultima stagione di “Succession”, se ne parli in giro prima del tempo ti veniamo a prendere coi gendarmi. Non sono uscita dalla stanza d’albergo di Londra in cui mi trovavo per tutto il giorno, perché delle storie non aveva mai smesso d’importarmi, e volevo sapere come sarebbe finito “Succession”.
E quindi so esattamente che giorno fosse e cosa mi avesse portato il servizio in camera il pomeriggio in cui un attore ha risvegliato il mio adulto interesse. È stato quando Kieran Culkin ha preso il personaggio meno a fuoco di “Succession”, Romulus detto Roman, e ne ha fatto quello che arrubbava la scena a tutti.
Certo, l’ha fatto con la collaborazione di Jesse Armstrong, l’ideatore della serie, che sospetto abbia cucito i personaggi addosso al materiale umano che aveva (o abbia fin dall’inizio scelto gli esseri umani più somiglianti ai personaggi che si era immaginato). Fatto sta che fin dall’inizio il protagonista doveva essere Kendall, che alla prima puntata deve diventare il capo della baracca e poi papà ci ripensa, e fino all’ultimo strepita e piange e si droga e va in crisi e dice che l’erede è lui. Ma avremmo dovuto capirlo da quella prima puntata in cui straccia l’assegno in faccia al bambino povero, che Romulus non andava sottovalutato.
Avremmo dovuto sapere che Kieran era il figo anche alla fine del 2021, nei mesi, beati voi se non ve li ricordate, che passammo a discutere di Jeremy Strong, che il New Yorker aveva raccontato come uno di quei disturbatissimi attori da immedesimazione metodica, e tutti quelli dell’ambiente si affrettavano a dire che bisognava parlare rispettosamente della sua arte, e noialtri sani di mente pensavamo: ma è uno che di lavoro fa le facce.
E invece a capire è servita non solo l’ultima stagione di “Succession” – se non avete mai visto “Succession”, a parte che non so cosa perdiate tempo qui a fare, se avete solo un’ora di vita da dedicare a una meraviglia, andate su Sky e direttamente alla nona puntata dell’ultima stagione, quella che s’intitola “Chiesa e Stato”, quella che comincia con Romulus che fa il figo preparandosi allo specchio per il funerale, convinto d’aver già smaltito il lutto, e poi crolla miseramente sul pulpito: quella puntata con cui Jesse Armstrong dice al pubblico «cretini, ancora perdete tempo con Jeremy Strong» – non solo quella, ma soprattutto questo lungo anno e mezzo senza “Succession”.
Questo anno e mezzo in cui i due sono stati ovunque: Jeremy Strong perché era Roy Cohn nel film sul giovane Trump, “The apprentice”; e Kieran Culkin perché Jesse Eisenberg, non avendo più Zuckerberg da interpretare, ha deciso di fare il regista, e di scriversi un film in cui lui e Culkin sono due cugini ebrei che vanno in Polonia a vedere i luoghi della Shoah e la casa della loro nonna morta. Sono stati ovunque a promuovere i loro film, i due ex fratelli Roy, ed è stato più che mai chiaro che chi se ne importa del metodo, dell’immedesimazione, di quanto sei tecnico nel fare le facce: la differenza la fa la personalità.
Da Katharine Hepburn a Vittorio Gassman, non c’è mai stato un attore interessante che non recitasse innanzitutto sé, e Culkin e Strong fanno dei ruoli che somigliano a come sono loro nelle interviste e forse nella vita (vai a sapere): uno cazzone, l’altro contrito. Ovviamente, io tengo per il cazzone.
In “A real pain”, che in Italia esce al cinema (parlandone da vivo) tra tre settimane, è un cazzone con dentro un dolore pazzesco (come tutti i cazzoni, diranno quelli che amano gli psicologismi), proprio come in quella puntata di “Succession” in cui si preparava al funerale promettendo a un pubblico immaginario che avrebbe visto «Roman the showman lit up the sky», e poi sappiamo com’è finita. Che si tratti di attori o di personaggi, la lezione di Culkin (che temo Strong non sia in grado d’imparare) è che i dolori pazzeschi è meglio se non segnalano il loro arrivo da cento metri come abbaglianti in autostrada (scusate, è la giornata nazionale delle similitudini sciatte).
Ho amato tutto di “A real pain”, un film fatto di niente (no, non citerò Flaubert, promesso); un film che, se non fosse disdicevole dire di qualcuno che è il nuovo qualcun altro, sembra quello che scriverebbe Woody Allen se avesse quarant’anni oggi. E che, come i migliori Allen, sta sotto l’ora e mezza, ormai una rarità (ci vogliono idee chiare, per non andare lunghi, e infatti io mi prometto sempre di scrivere venti righe e poi ne scrivo duecento).
Conto sul fatto che le cerimonie di premiazione vadano in tv e debbano quindi essere divertenti, e che Culkin lo premino per tutto il pacchetto, in cui c’è anche il suo fare di grandissima lunga i migliori discorsi di ringraziamento (l’ultima volta che ha vinto per “Succession”, ha proposto dal palco alla moglie di fare il terzo figlio: non sappiamo se a casa l’abbia preso a calci, purtroppo, dato che nessuno ha ancora pensato al reality “Keeping up with the Culkins”).
Conto su quello perché da domenica, quando ci saranno i Globe, e per tutta la stagione dei premi fino agli Oscar di marzo, Culkin vinca tutto tuttissimo. Sì, lo so che Denzel è un figo pazzesco, ma “Il gladiatore II” è una schifezza vera. Sì, lo so che Edward Norton piace a tutti (pure a me), ma per dire quanto siete devoti a Bob Dylan potete premiare l’inutile Chalamet nella categoria dei protagonisti.
Per i non protagonisti capaci di arrubbare la scena ai protagonisti, c’è una sola vittoria giusta e fonte di salvezza dalla contrizione perpetua. Già Jack Nicholson non ha talmente più voglia che neanche va a sedersi in prima fila: fino al 2013 non mancava mai, lui e i suoi occhiali da sole erano un arredo fisso della cerimonia. Adesso se vuoi vederlo devi cercarlo nella prima fila delle partite dei Lakers, alle premiazioni del cinema non c’è più nessuno d’interessante e non possiamo anche permettere che la dolenza abbia la meglio sulla cazzonaggine. Non fatemi innervosire.