Ora che possiamo parlare liberamente di Cecilia Sala, senza l’ansia di immaginarla in isolamento, al freddo, e costretta a dormire per terra nella famigerata prigione di Evin, ostaggio del più infame dei regimi teocratici e oscurantisti; ora che possiamo scriverne senza alimentare il solito orrendo teatrino italiano, e senza dover trattenere le lacrime al pensiero dei suoi familiari, della sua splendida mamma, di Daniele Raineri e degli amici del Foglio e di Chora, è arrivato il momento di riconoscere che Cecilia è la giornalista più brava e coraggiosa della sua generazione, e anche di molte generazioni precedenti.
Chi non la conosce professionalmente in questi giorni si è lasciato trascinare, in alcuni casi anche con indecente trasporto, nel fango dei “se l’è cercata” e degli “è figlia dei poteri forti”, miserie uguali e contrarie a quelle di chi, prima del sequestro dei pasdaran, la criticava di essere anti israeliana o filo ayatollah, proprio lei che poi gli ayatollah hanno sbattuto in cella, mentre semplicemente si è sempre posta domande e ha cercato sempre di dare risposte informate intorno alle cose che ama vedere da vicino.
Cecilia Sala ha raccontato l’infame ritiro americano dall’Afghanistan in modo superlativo, semplicemente dal suo account Instagram, mentre gli inviati di razza si godevano il Ferragosto al mare, e poi le elezioni cilene e la guerra incivile dei russi all’Ucraina e il post sette ottobre in Israele, con una compostezza anglosassone, e così poco italiana, anticipata già nell’approfondita inchiesta sul delitto di Marta Russo.
Cecilia Sala non è Oriana Fallaci, anche se le circostanze l’hanno trasformata nella giornalista italiana più vicina a Oriana Fallaci, titolo che a questo punto s’è guadagnata sul campo, si merita e le sarà utile nel suo futuro professionale (anche la signora Fallaci è stata arrestata in Iran, e fu liberata, così mi disse una sera a casa sua a New York, perché raccontò al suo carceriere, il cui cervello evidentemente non era stato ancora completamente bruciato dall’islamismo sciita appena insediatosi a Teheran, che era amica di Ingrid Bergman e che avrebbe potuto chiamarla, cosa che fece, per passargliela al telefono, illudendo quel babbione col turbante di aver conosciuto la grande star del cinema; praticamente Fallaci convinse la Bergman a mettere un cuoricino all’ego del guardiano della rivoluzione).
Le corrispondenze di Cecilia Sala dall’Afghanistan e dall’Ucraina orientale, così come quelle dal Grande Medio Oriente o dal Sudamerica, sono sempre puntuali e avvincenti, curiose e non ideologiche, fresche più che fiere, piene di umanità ma mai lagnose, a ciglio asciutto. Il suo stile giornalistico non è né pugnace né militante, non è ideologico, e questo scontenta i tifosi delle due curve e prende in contropiede chi si aspetta di leggere le cronache del derby e non le notizie sulle immani tragedie raccontate da Cecilia.
Quando Sala scrive sembra che sia lei la prima a voler capire che cosa sta succedendo, e sembra che arrivi a capirlo proprio studiando e girando, incontrando e raccontando, facendo il mestiere che le piace fare, e che sa fare.
Cecilia Sala non è una militante, anche se ovviamente ha le sue opinioni e chi l’ha ascoltata dal vivo nei vari festival in giro per l’Italia lo sa benissimo, ma la sua cifra è diversa da quella di Fallaci: Cecilia Sala non va in posti orribili per sbattere in faccia l’orrore che vede, né ci va per stupire i lettori con effetti lacrimogeni, e nemmeno per lanciare in faccia ai mullah quel «cencio medievale» che copre i capelli delle donne, come fece Oriana Fallaci durante la celebre intervista al primo responsabile della quarantennale carneficina iraniana, Ruhollah Khomeini.
Cecilia Sala è semplicemente una giornalista brava, una merce rara.
Bentornata in Italia, e complimenti a Giorgia Meloni per non aver trasformato la liberazione di una giovane giornalista, comunque sia arrivata, in varietà o operetta (sì, penso a che cosa avrebbero potuto congegnare Rocco Casalino e Giuseppe Conte in una situazione simile, nell’ipotesi dell’irrealtà in cui fossero riusciti a liberarla).