La firma visiva della serie di documentari sviluppata per Netflix da David Gelb resta inconfondibile, con fotografia e riprese già note che nella settima stagione elevano ulteriormente le inquadrature di piatti e paesaggi che insieme alla musica arricchiscono il trasporto emotivo di ogni episodio. Cos’hanno in comune Nok Suntaranon, Kwame Onwuachi, Ángel León, Norma Listman e Saqib Keval oltre al loro lavoro? Apparentemente nulla, ma guardando episodio dopo episodio emerge una narrativa ben coesa, che dalla cucina – dal tema centrale – dal successo e dalle stelle, pone il focus sull’identità culturale, il rispetto per l’ambiente, la resilienza. Ci si muove dal cibo verso le storie individuali in termini di lotte personali – e non solo – dei protagonisti, arricchendo di uno sguardo più intimo e umano la serie gastronomicamente più cool del momento.
Ogni episodio si concentra su uno chef il cui lavoro trascende la cucina, parte da una motivazione e intenzione potente. Dalla Thailandia a Philadelphia, dalla Nigeria alla Grande Mela, Nok Suntaranon e Kwame Onwuachi parlano di riscatto, della cucina come lo spazio per elevare tradizioni dei loro Paesi e cambiare, scrivere il seguito della propria storia a partire dalle loro radici. Nok Suntaranon ha aperto il suo ristorante a cinquant’anni dandogli il nome della madre – Kalaya – alla quale deve molto, cioè la perseveranza di crescere dei figli in un contesto umile, al fianco di un marito violento. I piatti sono reminiscenze dell’infanzia – come il Gaeng Pae, carne di montone di capra e agnello che cuoce otto ore – per non dimenticare chi è, da dove arriva e come ha fatto arrivare dov’è oggi, ma sono anche la volontà di restituire dignità a una cucina venduta come rapida ed economica negli Stati Uniti.
«La classica storia del povero che diventa ricco» è invece quella di Kwame Onwuachi dal Bronx, dov’è cresciuto e dove vivono molti immigrati che hanno contribuito alla crescita di una citta come New York. Tra i preconcetti dell’alta cucina nei confronti di uno chef di colore rimane la volontà di cucinare i piatti del suo popolo, quelli che desiderano mangiare in un ristorante raffinato per sentirsi a casa, sentendosi accettati.
Anche qui torna la figura materna che lo avvicina alla cucina e la sorella che non smette mai di credere in lui. Nasce così il Tatiana, nome proprio della sorella maggiore, appunto, dove cucinare il cibo che «da sempre è stato il nostro posto sicuro, il nostro linguaggio d’amore»: insalata Piri Piri con zucca honeynut, granceola al curry, jarked cod.
Storie di chi ha trasformato la sofferenza in qualcosa di bello e gioioso, tra tecniche tradizionali e sensibilità moderna, abbracciando ingredienti locali e tecniche antiche, ma reinterpretandoli con uno stile contemporaneo, dimostrando come la cucina possa evolversi senza perdere le proprie radici.
Ma ci sono anche storie di riflessione sulla grande industria ristorativa che ai più appare tutta tv e lustrini. La stagione celebra non solo l’eccellenza culinaria, ma anche il coraggio di sfidare le convenzioni e di cambiare un sistema.
Il terzo e il quarto episodio sono un viaggio in Spagna, a El Puerto De Santa Maria, e nella capitale del Messico, e un racconto di chi ha rotto le regole per ridefinire i confini della cucina contemporanea.
È il caso di Ángel León, terzo chef spagnolo che prende parte alla serie, dopo Jordi Roca e Albert Adrià, nell’episodio che è stato diretto proprio da Brian McGinn, che trasforma l’acqua di mare in sale, i pesci i salumi e qui produce una fonte di energia: la luce del mare.
Decide di utilizzare l’oceano come l’orto del futuro, studiandolo, investendo su un dipartimento di biologia marina per progetti che cercano come possiamo alimentarci dal mare nel futuro, ma partendo da un’esperienza molto pragmatica fatta da ragazzo: quella sui pescherecci locali.
Questa lo illumina e gli permette di iniziare il suo progetto di Aponiente: per pescare i pesci che il mercato richiedeva ne venivano pescati molti altri che poi venivano scartati. Se «amavo davvero il mare non dovevo cucinare un bel pesce, i gamberi o le aragoste, ma quello che l’uomo non voleva mangiare, il pesce che nessuno voleva, quello che piaceva cucinare a me».
Una consapevolezza – quella che «se unissimo tutti i pesci scartati in tutti i pescherecci del mondo potremmo sfamare l’umanità per altri 150.000 anni» – che lo porta a pensare un modo per far mangiare quei pesci agli altri.
Piatti come la Marine Charcuterie partono proprio da qui, dal prendere la tradizione del maiale in Spagna e risolvere un problema che è nell’oceano per creare una nuova tradizione.
Studiando il mare scopre un cereale marino, la Zostera marina, il cui seme è più nutriente del comune riso e di cereali come l’orzo, il frumento, l’avena o il mais e ha il desiderio sfamare i luoghi dove si fa la fame con un cereale che cresce in mare. Non sfamare solo i suoi clienti, ma trovare la soluzione a un problema globale anche se nessuno lo vuole accompagnare in questo progetto.
La volontà di cambiare un paradigma, di far valere la propria voce da un piccolo locale di città del Messico, è anche quella di Norma Listman e Saquib Keval.
Da un iniziale progetto di ricerca, da un’esperienza di progetto comunitario – il People’s Kitchen Collective – e dalla disillusione del sogno della cucina nasce Masala y Maíz, dove tutto ruota intorno ai sapori che rispecchiano gli chef e la loro storia, quella del Messico e dell’India, ma anche di immigrazione e di influenze che convergono nei loro piatti, come Esquites makai pakka a base di mais.
Il cibo è il mezzo di comunicazione che veicola valori e politica, viene messo da parte il modello imposto dall’industria della ristorazione che sacrifica la ricerca e impone un servizio rigoroso. Masala y Maiz è nato come l’opportunità di un ristorante come motore del cambiamento: è l’incontro di produttori con un codice etico, sono lavoratori al centro, sono i valori che hanno un peso maggiore del profitto, così come l’atto di imparare a sfavore dell’imposizione di una rigida gerarchia.
Un luogo che si basa sui valori e così cresce e prospera e dà vita a un movimento, una rivoluzione.
Il messaggio è chiaro: il cibo non è solo nutrimento, ma una forma di espressione culturale. È arte, cultura e umanità.
Ben lontano dalla mera esperienza sensoriale e gastronomica, è un elemento che gioca un ruolo fondamentale nelle nostre vite nonché il mezzo per raccontare storie, la nostra e quella degli altri. Così come la cucina è molto più che un atto tecnico: è un ponte tra passato e futuro, un linguaggio universale che unisce tradizioni, territori e persone.
Ogni piatto racconta una storia, e ogni storia ha il potere di cambiarci.