La Maga di RomaMeloni fa l’interprete di Trump in Europa, ma rischia di danneggiare l’Italia

Il 3 febbraio i capi di governo europei, più la Gran Bretagna e la Nato, discuteranno di sicurezza e di spese per la difesa comune. La premier proverà a valorizzare il suo rapporto privilegiato con il presidente americano, sapendo però che l’Italia non potrà accogliere in pieno la sua richiesta di aumentare gli investimenti militari

AP/Lapresse

Giorgia Meloni avrà presto l’opportunità di poter dimostrare quale sia il peso effettivo del suo «rapporto solido e privilegiato», come l’ha definito lei stessa, con Donald Trump. Dovrà conciliare l’amicizia con il nuovo presidente americano e la dignitosa sopravvivenza dell’Unione europea che tra i tanti guai politici, industriali e commerciali avrà in tempi brevi l’onere di una maggiore spesa militare. Il presidente del Consiglio Ue Antonio Costa non poteva scegliere location migliore per attirare gli spettri che si aggirano nel Vecchio Continente e agitano il sonno degli spaventati leader europei. Li ha convocati il 3 febbraio allo Chateau de Limont, a settantacinque chilometri da Bruxelles.

Stampa tenuta lontana, presenza straordinaria del premier britannico Keir Starmer, ospite speciale il segretario generale della Nato Mark Rutte perché di difesa comune si parlerà. Non è certa la presenza di Ursula von der Leyen, ancora convalescente per una severa polmonite. Lei è la metafora dello stato di salute di questa parte di Occidente schiacciata tra Donald Trump, che la vuole indebolire con i dazi, Vladimir Putin, che punta a dividerla e dettare le sue condizioni per la pace in Ucraina, e Xi Janping che persegue la conquista dei mercati esteri.

Nel salone del castello, i ventisette capi di Stato e di governo si troveranno in una sorta di ritiro spirituale, una todo modo europeo per guardare in faccia la nuova realtà geopolitica in cui viviamo, con ricadute concrete e dirette nella vita politica ed economica nazionale. Per cominciare a fare i conti con l’esaltato Pete Hegseth che ieri, di fronte alla Commissione Difesa del Senato, ha detto di voler riportare «la cultura del guerriero al Pentagono».

I traballanti ventisette devono tirare la testa fuori dalla sabbia, mettere mano al portafoglio e alzare le spese militari. Dovranno cominciare a discutere se si tratterà del portafoglio dei singoli Stati o, in maniera più lungimirante, quello collettivo come è stato fatto per l’acquisto comune dei vaccini anti-Covid. Non hanno più tempo da perdere: il 3 febbraio Trump sarà già seduto alla scrivania dello Studio Ovale e forse quel cinque per cento del Pil che ha chiesto a ogni governo europeo per la Nato sarà ridimensionato. Il Maga di Washington comunque non è più disposto a farsi carico della difesa dell’Europa, del grosso della spesa militare, non ha intenzione di imbarcarsi nella linea di interposizione tra i territori occupati da Mosca e il resto dell’Ucraina. In ogni caso tutti i partecipanti al summit del castello molto presto dovranno raggiungere e superare decisamente il due per cento del Pil, ma con quali soldi farlo è il problema dei problemi. A cominciare dall’Italia che arranca in bassa classifica mentre la Polonia svetta al 4,7 per cento.

Roma, con il suo enorme debito pubblico, non ha le risorse per rispondere positivamente all’amico Donald. Se volesse portare la spesa militare dal 1,5 per cento di oggi al 2,5, Meloni dovrebbe sborsare diciotto miliardi, l’ammontare di una manovra economica. Di fatto impossibile visto lo stato delle finanze italiane. Per questo la premier e il ministro della Difesa Guido Crosetto hanno sempre ripetuto la richiesta di tenere fuori dai conti del Patto di stabilità i soldi da mettere sul tavolo della Nato. Oppure di fare debito comunitario con gli eurobond. Ecco allora che Meloni, portavoce e traduttrice di The Donald, si trova nella situazione più imbarazzante: dover svolgere il ruolo di interprete autentica dei desiderata del nuovo inquilino della Casa Bianca, ma dalla posizione più scomoda proprio su un asset centrale della dottrina Trump per la difesa.

Nello Chateau de Limont potrebbe quindi andare in scena un lost in traslation: Meloni perderà le sfumature della traduzione dall’inglese americano a quello usato nei vertici europei e dovrà mostrare il suo vero volto. Di chi unisce o divide. Non potrà essere certo lei a invocare a nome di Trump nuove spese militari; non potrà accettare qualsiasi tipo di pace gli americani vorranno; non potrà cancellare qualsiasi ambizione di spesa pubblica italiana nelle ultime manovre economiche che la separano dalle elezioni politiche del 2027. Insomma, le chiacchiere al ritiro spirituale di Limont saranno a zero perché tutti hanno chiaro che senza gli Stati Uniti siamo in braghe di tela.

L’Europa, ha scritto Costa nella lettera di invito spedita alle Cancellerie europee, deve assumersi una maggiore responsabilità per la propria difesa, deve diventare più resiliente, più efficiente, più autonoma, un partner transatlantico più forte, anche nel contesto della Nato. Senza gli Stati Uniti, ha ricordato Rutte, la spesa militare per la Nato salirebbe all’otto per cento: «Servirebbe costruire un ombrello nucleare per la difesa, e ci metteremmo almeno quindici anni per costruirlo».

Meloni, nel todo modo di Limont, non potrà più accarezzare i colleghi più di destra e sovranisti come Viktor Orbán e Robert Fico, non potrà fare il pesce in barile frenando la vitale integrazione europea. Non servirà fare l’Aldo Moro transatlantico (quel tipo di democristiani non sono mai piaciuti agli americani, figuriamoci a Donald e a ketamina Elon). Dovrà girare le carte. Non potrà che continuare a chiedere di sospendere il Patto di stabilità o sperare che l’Europa, sempre più a destra, faccia debito comune. Se non otterrà una delle due cose, non gli rimane che chiamare i suoi due vicepremier (e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti) e cominciare a far di conto. Sapendo già quale sarà la risposta di Matteo Salvini. La premier in ogni caso non potrà più fare tante parti in commedia. Gli spettri del castello non abboccano.

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