C’è una riflessione, che di fatto è sempre più un tema, che riguarda l’universo del caffè e i suoi protagonisti. Da quando anche l’Italia ha preso confidenza con il fenomeno specialty coffee, le nostre città hanno iniziato a vivere una divisione crescente tra il modello vecchia scuola e quello più verticale del caffè di qualità.
Di che cosa stiamo parlando? Di chicchi di caffè verde di altissima qualità, senza difetti gravi di produzione e con un grande potenziale aromatico. La loro provenienza è totalmente tracciata e all’assaggio – se tutti i processi sono stati fatti con le giuste attenzioni – superano gli ottanta punti in una scala che arriva sino a cento. La dicotomia venutasi a creare nel consumatore, quindi, è duplice. Forse anche triplice. Nel prodotto, che mette inevitabilmente a confronto un caffè di filiera, coltivato rispettando determinati principi di tempo, economie, sostenibilità, con un caffè industriale su cui in genere si conosce poco o nulla. Nell’utente, creando uno spartiacque non solo di informazione tra chi conosce il “nuovo” ingrediente e chi no, ma anche di prezzo. Mediamente un espresso da filiera controllata costa almeno due volte e mezzo un espresso tradizionale. Infine, nella narrazione sul caffè stesso. Guardando ad altri protagonisti nel mondo della gastronomia ci sono diversi elementi che sono già passati attraverso questo processo. Il pane, ad esempio, grazie a una rivoluzione che è iniziata silenziosa e nonostante la sua affermazione necessiti ancora di esempi, parole, persone che ne diffondano il messaggio. Anche per questi piccoli chicchi dal profumo intenso, esistono una storia e un fattore socio-culturale che non è facile cambiare.
Non è giusto pensare di andare a sradicare un atteggiamento che ormai è insito da generazioni. La modalità più giusta sarebbe indagare ai fini di conoscere meglio lo stato di fatto e rendere il consumatore protagonista. Tenerlo aggiornato, renderlo partecipe, spiegargli i fatti dal principio e farlo parte attiva di un (potenziale) cambiamento. Spesso si sentono i giovani roasters reclamare una nuova narrazione sul caffè. Ma che cosa si intende esattamente con questa espressione? E ancora, quale sarebbe l’esatta versione attuale? Cerchiamo di spiegarlo per punti. Partiamo dal livello più immediato, il gusto. È indubbio che il caffè, per come lo conosciamo carico della sua intensità e spesso bisognoso di zucchero per essere bevuto, tende a non avere un profilo aromatico variegato. Si sente sovente parlare di note bruciate, tostature eccessive e in certi casi anche di mal conservazione e gestione dei chicchi nelle fasi precedenti al consumo. Generalmente, il gusto amaro prevale su quello acido – che si ritrova con facilità nei caffè specialty – rendendo il primo friendly al consumatore e il secondo più respingente. In realtà, in entrambi i casi c’è un difetto di percezione da correggere.
Un altro livello su cui c’è ampio margine di miglioramento è la qualità. La qualità della materia è senza ombra di dubbio l’elemento fondamentale su cui costruire una tesi e su cui andare a sensibilizzare il cliente. Se per anni si è fatto uso di caffè mal processati, importati distrattamente e lavorati senza alcun rispetto, la responsabilità è prima di tutto di quei protagonisti del settore che hanno cavalcato un’onda pensando esclusivamente (o quasi) al beneficio economico. Ora che la bontà di ogni prodotto portato in tavola è diventato veicolo di sensibilizzazione delle masse, anche il caffè è pronto a farsi spazio e trovare una sua voce.
I cliché su questa bevanda sono molteplici ma ancora più numerosi sono gli addetti ai lavori che mancano di una formazione professionale in materia. Quante volte troviamo giovani apprendisti impegnati alla macchina da caffè e lasciati al bancone senza alcuna considerazione di pulizia, acqua, grana di macinatura, oleosità e annessi tecnicismi riguardanti il lavoro. Il consumo reiterato di caffè, senza alcuna riflessione sulla sua natura e sulle sue possibili sfaccettature, ne ha appiattito identità e valori, rendendolo sempre più commodity anziché prodotto. La sua facilità di approccio e velocità di consumo ne hanno fatto un prodotto popolare (nell’accezione negativa del termine), accessibile a tutti e reperibile pressoché ovunque.
Per tornare al quesito che ci siamo posti inizialmente, che cosa si intende per una nuova narrazione sul caffè? La diffusione e la spinta al consumo di caffè specialty anziché industriale si focalizza sulla scelta di un prodotto con una tracciabilità chiara, con un Dna unico di pianta in pianta e con un ventaglio aromatico identitario.
La scelta di lavorare con piccoli produttori, sottostando alle quantità imposte dalla natura e dai processi fisiologici della pianta, è una presa di coscienza che può essere accolta da sempre più utenti. Raccontiamo quello che ancora non è stato detto, andiamo a fondo nelle argomentazioni per poter prendere una posizione e proviamo, insieme, a scoprire nel dettaglio un mondo, quello del caffè, che ci è sempre stato vicino ma nel modo sbagliato.
Courtesy cover image Austin Park