Conversazioni notturneUna passeggiata nei pensieri di William Kentridge

Diventato regista durante il lockdown per rompere il tabù dell’intellettuale che fa una serie tv, abbiamo incontrato l’artista e ci siamo fatti trasportare in un dialogo esistenziale su come farsi salvare da pessime scelte e respirare utopie grazie al whisky e a notti insonni

Fermo immagine da Self-portrait as a Coffee Pot, Episodio 5, As If, 2022, HD Video.

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Basta aver visto una foto di William Kentridge per non avere dubbi sulla sua identità se lo si incontra per caso: camicia bianca dentro un paio di pantaloni scuri con le pince, cintura e scarpe allacciate, sono la divisa d’ordinanza. Non la abbandona mai, nemmeno durante il lockdown che nel 2020 ha tenuto in scacco l’artista sudafricano insieme all’intero pianeta. Il suo studio era il suo mondo, come i singoli spazi privati per tutti noi. Ma lui in quello studio ha messo in scena una serie tv in cui si racconta, si raddoppia, si triplica per confrontarsi con se stesso, per criticarsi ferocemente… ma sempre con i pantaloni scuri e la camicia bianca.

Mr William Kentridge veste così, un po’ come disegna: il suo è un tratto inconfondibile. Ha proseguito nel lavoro seriale per concluderlo nel 2023: nove episodi da trenta minuti con l’intervento anche di artisti del presente e del passato. Il titolo: Self-portrait as a coffee-pot, pensata per internet, da guardare al computer, sul telefono o sul televisore. In occasione della Biennale di Venezia, Kentridge con la curatrice Carolyn Christov-Bakargiev ha allestito una mostra all’Arsenale Institute for Politics of Representation diretto dal filosofo Wolfgang Scheppe, esperto e collezionista della corrente situazionista.

William Kentridge a Roma nel 2019. Photo by Stella Olivier

In effetti la mostra potrebbe avere questo spirito, situazionista: si entra nella riproduzione (parziale) dello studio di Kentridge per assistere alla proiezione della serie girata e ambientata nello stesso ambiente, per poi salire al secondo piano della palazzina e ritrovare schermi e computer da cui vedere altri episodi, in cucina o in camera da letto… Ma no, Kentridge non è un pittore situazionista. Su di lui hanno un’influenza maggiore il movimento dadaista, la Bauhaus e quello dei precursori del costruttivismo, in particolare la figura di Oskar Schlemmer e la musica di Dmitri Shostakovich.

L’autoritratto come caffettiera allestito a Venezia è un doppio salto nel suo mondo, tra disegni e topolini di carta animati che girano sui fogli. E lui, Kentridge stesso, protagonista indiscusso della mini serie, mi appare in carne e ossa come fosse uscito da uno di quegli schermi. L’effetto Alice nel paese delle meraviglie è inevitabile e lui lo accentua: «Abbiamo appuntamento ora? La raggiungo di sopra, tra cinque minuti», e in un attimo scompare, per riapparirmi, come lo Stregatto della favola, in cucina, pronto ad abbassare l’audio di uno degli episodi che lo ritrae esattamente come lo sto guardando dal vivo.

Primi due frame da Self-Portrait as a Coffee Pot, Episodio 2.

Quanti io ha lei, signor Kentridge? «Almeno due, mentre lavoro: ci sono io che sto disegnando alla parete e io che faccio due passi indietro per osservare il disegno. Questo sé è diverso dal primo perché sa criticarne il lavoro e dare indicazioni precise su come andare avanti: troppo scuro, devi dare più luce, dice per esempio all’altro sé. Che a volte è felice, gli sembra di disegnare benissimo. Poi arriva l’altro, quello che compare facendo due passi indietro, e gli dice che no, non sta disegnando bene. Allora ci si arrabbia con sé stessi». Ma poi si moltiplicano: «La mia serie è una rappresentazione dei sé molteplici che riguarda tutti, non solo gli artisti. C’è anche un fatto pratico, però, ero da solo in studio e non potevo invitare nessuno con cui conversare, ma volevo evitare la voce fuoricampo da documentario. Così mi sono messo a parlare con me stesso».

Fermo immagine da Self-portrait as a Coffee Pot, Episodio 1, A Natural History of the Studio, 2022

Siamo nel pieno del lockdown e negli episodi Kentridge passeggia nel suo studio come fosse «una passeggiata nei pensieri, in quei centimetri di spazio che diventano centimetri intorno al proprio cervello, alla propria memoria», mi racconta, per fare poi un gioco antico, quello dello specchio: una grande cornice delimita lo spazio riflettente ma poi si scopre che non c’è e dall’altra parte gli altri Kentridge fanno cose diverse da quello che pensava di specchiarsi. «A volte nello specchio vedo me stesso e altre no. Invecchiando diventa una percezione difficile perché mi sento identico a quando avevo 40 anni e quando nello specchio mi vedo come sono adesso, la prima reazione che ho è: chi è quel vecchio impostore? Esci dai miei vestiti! Poi diventa un gioco». Un modo per parlare di identità? «No. Il mio non è un lavoro sull’identità. Sono contro la politica identitaria e penso che causi molta violenza perché introduce il personalismo». E infatti in quegli specchi compaiono anche altre persone, anche se a specchiarsi è sempre lui, William Kentridge, l’artista di Johannesburg, figlio maggiore dell’avvocato che difese Nelson Mandela, Sydney, oggi 101enne).

Fermo immagine da Self-portrait as a Coffee Pot, Episodio 7, Methamorphosis, 2022, HD Video.

E la memoria, torno a chiedergli, la memoria che ruolo ha in questo suo lavoro? «Per l’artista la memoria è ossigeno, senza non potrebbe vivere», risponde subito, «Ma ricordare troppe cose è paralizzante, quindi c’è una linea sottile tra ricordare e dimenticare. Su cui sta anche l’identità, che è formata da ciò che si vuole ricordare di sé e ciò che si vuole cancellare». I nove episodi fanno anche questo, compreso un viaggio tra Schlemmer e Shostakovich, tra utopia e immaginazione, come a rappresentare un teatrino della fantasia.

«Mi affascina molto di quel periodo il fatto che fiorisse così tanta immaginazione. Tra il 1915 e il 1930 c’era un’energia creativa speciale avvolgeva tutta l’Europa. Ma perché? Forse perché la gente stava vivendo in un momento molto difficile, critico? E l’utopia? Può essere anch’essa ossigeno per la mente perché amplia la nostra visione del mondo, oppure il suo contrario». Come le idee da perseguire, lei raccomanda di scegliere quella meno buona. «A Johannesburg in effetti ho aperto il Centre for the Less Good Idea in onore di un proverbio africano: se un buon dottore non è in grado di aiutarti, rivolgiti a un dottore meno buono. Voglio dare attenzione al marginale, al locale. Anche in questa serie tv, girata senza uno script e con tanta improvvisazione». Quindi poi l’idea meno importante diventa la migliore. «Oppure la peggiore! Non ci sono garanzie, tranne di evitare di insistere su quella che consideriamo ottima: si finirebbe per farne qualcosa di urlato, violento».

Frame da Self-Portrait as a Coffee Pot, Episodio 6, A Harvest of Devotion, 2022.

Chissà, forse per scegliere l’idea meno buona occorrono almeno due sé, la ragion pratica e la ragion pura, quella che fa e quella che critica. Serve del whisky? Ho visto che in calendario ci sono degli incontri a mezzanotte accompagnati dal super alcolico. «Siamo qui, in questo posto stupendo, mi piaceva l’idea di usarlo a tarda sera. Con il whisky, sì. Mi piace parlare quando sono leggermente alticcio. Ecco, preferisco di certo fare queste conversazioni notturne, magari stupide, con del whisky accanto, piuttosto che senza».

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