Il mais, conosciuto anche come granturco, è una pianta coltivata e ampiamente utilizzata dalle popolazioni che abitavano i territori dell’odierno Messico, Honduras e Guatemala, nel Centro e Sud America. Si stima che le antiche civiltà mesoamericane utilizzassero il mais già dal 2500 avanti Cristo. Fu solo dopo l’arrivo di Cristoforo Colombo in America che il mais approdò anche in Europa, dove la sua diffusione fu rapidissima.
Prima raggiunse e conquistò la Spagna e il Portogallo, successivamente la Francia, l’Italia settentrionale, i Balcani, la costa occidentale dell’Africa e anche la Cina. Le ragioni di questa rapida diffusione erano dovute alla sua straordinaria resa, ma anche al breve ciclo colturale e all’adattabilità a climi differenti.
Il mais è stato un alimento fondamentale per le civiltà Maya e Azteca e continua a essere utilizzato per la preparazione dei piatti tradizionali, come tortillas, tacos, tamales, nachos, sopes e tanti altri. A differenza del grano, però, il mais è naturalmente privo di glutine, il che lo rende più difficile da impastare. Per le popolazioni autoctone, tuttavia, questo non rappresentava un ostacolo, tanto che non solo erano e sono numerosi i piatti a base di farina di mais, ma numerosi sono i piatti tradizionali dove vengono esaltate le proprietà di duttilità e malleabilità che questo cereale normalmente non possiede.
Dove risiede il segreto? Quando il mais fu introdotto in Europa non venne ritenuto necessario importare il fondamentale processo di lavorazione che le antiche civiltà mesoamericane avevano perfezionato millenni prima: la nixtamalizzazione.
Si ritiene che la tecnica sia stata sviluppata tra il Quattrocento e l’Ottocento avanti Cristo dalle popolazioni mesoamericane, inizialmente per ammorbidire i chicchi di mais per essere macinati. Ma è molto più di questo: si tratta di un processo essenziale per valorizzare appieno le proprietà nutrizionali del mais, che prevede l’uso di una componente alcalina, anticamente la cenere residua del fuoco di legna, mentre in tempi più moderni la calce. Grazie a questo, la farina ottenuta diventa più facile da lavorare, trasformando i chicchi in un alimento plasmabile.
La nixtamalizzazione non solo rende il mais più lavorabile, ma rende biodisponibili dei micronutrienti che nel mais naturale non lo sono. Questo processo consente di liberare la niacina, una vitamina essenziale (conosciuta come vitamina B3 o PP) intrappolata nell’amido del mais, rendendola assorbibile e prevenendo carenze alimentari. Inoltre, arricchisce il mais di calcio, aumentando la sua concentrazione fino a venti volte, e migliora la digeribilità delle proteine e la biodisponibilità di minerali come ferro e zinco. Riduce anche gli antinutrienti, come l’acido fitico, che ostacolano l’assorbimento dei minerali. Oltre ai benefici nutrizionali, la nixtamalizzazione migliora il gusto e la consistenza del mais, rendendolo un alimento più sano e apprezzato.
Insomma, si tratta di un arricchimento importante per chi utilizza il mais come base della propria alimentazione. Senza questa conoscenza, il mais nei Paesi europei divenne un alimento importante, ma privo di alcuni benefici nutrizionali essenziali.
Il procedimento consiste nel far sobbollire, ovvero cuocere senza arrivare alla bollitura, i chicchi di mais maturo insieme a una soluzione alcalina. Dopo la cottura, i chicchi, che prendono il nome di nixtamal, vengono lavati accuratamente e poi macinati a mano per produrre una farina che prende il nome di masa. Grazie a questo processo si ottiene un prodotto in grado di essere modellato sul momento per preparare impasti, oppure viene seccata per poter essere utilizzata in un secondo momento.
Nel processo tradizionale utilizzato in Mesoamerica venivano usati l’ossido di calcio (CaO), la calce o cal viva (calce viva), che si ottiene dalla cottura del carbonato di calcio, e la cenere di legno, ricca di idrossido di potassio. Alla calce viene poi aggiunta acqua per ottenere l’idrossido di calcio, chiamato anche “latte di calce” per il colore biancastro che lo caratterizza.
Nonostante i Paesi in cui si diffuse ignorassero questo fondamentale metodo di lavorazione, il mais veniva comunque ampiamente utilizzato per creare nuovi alimenti, come la polenta in Italia, diventando così un alimento tradizionale.
Nel Settecento, quando ormai il mais era consumato in grandi quantità ed era integrato nell’alimentazione europea, iniziò a diffondersi una misteriosa malattia: la pellagra. I sintomi comprendevano gravi dermatiti, lesioni cutanee, diarrea e demenza, e spesso la malattia portava alla morte. L’origine dell’epidemia rimase un enigma per molto tempo, fino a quando, nell’Ottocento, fu identificato l’unico fattore comune tra i malati: un’alimentazione poverissima, con carenza di alimenti di origine animale e pressoché esclusiva nel consumo di mais.
Perché le popolazioni del Sud America non avevano mai contratto una malattia simile? Il mistero fu risolto solo più tardi, nel 1937, quando Conrad Arnold Elvehjem, studiando una malattia simile alla pellagra nei cani (nota come “lingua nera”), scoprì che la causa della pellagra non era il consumo di mais, ma una carenza di vitamine, in particolare la precedentemente citata niacina o acido nicotinico. Questa vitamina fu poi chiamata vitamina PP, ovvero Pellagra Preventing.
Il mais non è il solo alimento a essere trattato con alcali e molti invece sono i pregiudizi riguardo l’utilizzo della calce nella lavorazione del cibo. La calce è infatti una sostanza pericolosa al contatto e se ingerita, ma non risulta tossica o velenosa. Una volta a contatto con l’acqua, la calce si trasforma in idrossido di calcio (E526), che, insieme all’idrossido di sodio (E524), viene utilizzato come regolatore di acidità in diversi cibi. Si può infatti trovare in piccoli quantitativi in molti prodotti come latte per neonati, vino, birre, liquori e gelati.
La calce viene utilizzata anche come trattamento per eliminare l’amaro delle olive, producendo un tipo di olive denominato “olive alla calce”, molto diffuso nel Sud Italia.
Il carbonato di sodio o di potassio, altre sostanze alcaline, vengono utilizzati, ad esempio, nell’impasto degli spaghetti giapponesi, come quelli impiegati nel ramen. Anche il cacao amaro in polvere subisce un trattamento alcalino, noto come “processo olandese”, che ne migliora la solubilità in acqua e gli conferisce un colore più tendente al rosso.
Ester Azzola, biologa specialista in nutrizione e neuroscienze e chef, formatasi tra l’Italia e l’Argentina, ci ha aiutato a definire gli aspetti tecnici e gli usi attuali di questa tecnica. Oggi il processo di nixtamalizzazione non è più limitato alle pratiche tradizionali delle popolazioni mesoamericane, ma viene utilizzato su vasta scala in ambito industriale. Nelle grandi industrie alimentari, il processo è stato meccanizzato per rispondere alla crescente domanda. I chicchi di mais vengono immersi in soluzioni alcaline controllate e successivamente sottoposti a tecniche di macinazione avanzate per produrre masa harina, una farina pronta all’uso.
«Tuttavia – puntualizza Ester Azzola – il mais nixtamalizzato industrialmente non possiede le stesse caratteristiche di quelli tradizionali, poiché i processi sono spesso velocizzati e il prodotto finale risulta più raffinato e standardizzato sia dal punto di vista organolettico che da quello nutrizionale». L’esperta ha aggiunto anche che «spesso le multinazionali non processano mais di varietà antiche e autoctone, ma le sementi sono di origine geneticamente modificata o ibridi coperti da brevetti o coltivati attraverso agricoltura intensiva. Contro questi prodotti si sono sviluppati movimenti popolari che mirano a difendere i processi tradizionali e a contrastare l’appropriazione culturale del mais da parte delle multinazionali».
Nonostante tutto, questi prodotti sono oggi disponibili nei supermercati di tutto il mondo, facilitando la preparazione di piatti tradizionali messicani, venezuelani, argentini, anche al di fuori del Centro America e, come sottolinea Azzola, «spesso rappresentano l’unica possibilità che le persone migranti hanno per poter continuare le loro tradizioni e rappresentazioni gastronomiche, i cosiddetti cibi totemici, anche lontano dalla loro patria».
La nixtamalizzazione rappresenta sicuramente un esempio di come le antiche tecniche di lavorazione degli alimenti possano convivere con quelle moderne e arricchirsi a vicenda. «Lo dimostra l’interesse che ha riscosso negli ultimi anni questa tecnica in tutto il mondo e nell’alta cucina» sostiene la chef biologa. Questo processo, che arricchisce il mais di nutrienti essenziali, è anche un esempio di come la globalizzazione, se condotta nel rispetto della cultura e degli ecosistemi, possa favorire l’adozione di metodi tradizionali, rendendo il mais non solo un alimento più sano, ma anche più apprezzato in tutto il mondo.