La principale differenza tra l’Italia dei Vanzina e l’oggi non è il pentapartito, non è la lira, non è il talento purissimo di certi caratteristi, non è il fatto che eravamo abbastanza piccoli da trovare tutto bellissimo e originale. La principale differenza è: non eravamo troppi.
Un pianeta non sovraffollato rendeva possibile tutto, anche la commedia di costume sulla lotta di classe. Anche la signora Covelli, che si percepiva aristocratica e non moglie d’ex capomastro arricchito, che trasecolava: «Quella famiglia di cafoni a Cortina». Anche Mario Brega, nel ruolo del capofamiglia dei cafoni, che si lamentava di quanto fosse cara Cortina e sospirava storpiando il nome del posto di vacanza dei poveri: «Io stavo tanto bene a Ovindolo».
Sono passati quarantadue anni da quel capolavoro di “Vacanze di Natale”, ed eccoci qui: a doverci indignare perché siamo troppi – in neolingua: c’è l’overtourism – a Ovindoli (che non capisco come non abbia ancora cambiato la vocale finale dedicando il proprio nuovo nome alla memoria di Brega).
Ieri la notizia era Ovindoli, l’altroieri Roccaraso, due posti dove nel Novecento nessuna persona ben nata era mai stata, due posti del cui affollamento non dovremmo preoccuparci così come non ci preoccupiamo della spiaggia di Rimini a ferragosto: sarà un problema di chi ci va, no?
No. Perché grandissima è la confusione sotto il cielo delle classi sociali, e io ho passato le ultime vacanze di Natale a citare la signora Covelli: «Non voglio che i miei figli frequentino dei torpigna. Se i torpigna, dopo averci invaso piazza di Spagna, ci invadono anche Cortina, allora non lo so: vendiamoci la casa».
A Natale non c’era ancora il caso della tiktoker burina (scusate la tautologia) che guida l’invasione di Roccaraso e poi quella di Ovindoli, ma c’era su Instagram un’evidente invasione di St. Barts, isola dei Caraibi che ricordo – dai tempi di quando ancora non mi faceva fatica cambiare codice postale – come semideserta.
C’entrava, pensavo allora, il fatto che a St. Barts c’è un aeroporto giocattolo, sulla cui pista possono atterrare solo minuscoli aerei che arrivano da St. Marteen, e quella pista è su una scogliera, ragione per cui vedi il tuo aeroplanino dirigersi dritto contro la parete e, se non vomiti per lo spavento, canticchi «This will be the day that I die».
Fatto sta che ai tempi miei eravamo già in questo secolo, eravamo pochissimi, eppure c’era già lo struggimento da via Gluck che pervade ogni conversazione almeno dall’invenzione del motore a scoppio (se non da prima): ah, una volta qui eravamo in quattro gatti, guarda adesso quanti torpigna. Naturalmente io mai mi percepivo torpigna, mai pensavo che una volta lì svernavano i Rothschild e ora Sorcioni, e se non è declino delle élite questo: macché, torpigna sono sempre gli altri.
Avanzamento veloce di qualche anno, e non solo chiunque a Natale 2024 era a St. Barts, da Leonardo DiCaprio a Leonardo Del Vecchio, ma il logo è diventato più popolare di quello I love NY (sarete tornati anche voi da New York con una maglietta con su scritto che amavate New York, nei primi anni Ottanta; nella seconda parte del decennio erano già state rimpiazzate dalle magliette «il mio amico è andato a New York e tutto quel che ne ho ricavato è questo schifo di maglietta»).
Ovunque, dalle vetrine in centro a Bologna a pareti intere all’aeroporto di Cagliari, ci sono in vendita borse, magliette, cappellini con scritto St. Barts. Non ho capito se servano a fingere d’esserci stati o se semplicemente quello sia il logo che va di moda in questo tempo senza gusto (ai tempi nostri andava quello Louis Vuitton: nulla di ciò che è di cattivo gusto mi è alieno).
Discutevo con un’amica e lei si chiedeva come mai i veri ricchi non smettessero d’andarci, ora che l’isola era invasa da arricchiti e gente con la telecamera dentro al telefono, e ne traeva una conclusione interessante. Il fatto è, diceva, che non sono i tiktoker a voler somigliare ai veri ricchi: sono i veri ricchi a voler somigliare a tiktoker. Le ereditiere che non sono figlie d’un capomastro ma seconda, terza, settima generazione di ricchezza, quelle lì vogliono essere influencer, mica tizie riservate cui nessun torpigna possa sognare d’avvicinarsi.
D’altra parte le ragazze, che siano ereditiere o arrampicatrici sociali, hanno tutte la stessa estetica di boccuccia protesa verso la telecamera del telefono e unghie a punta: perché non dovrebbero andare tutte in vacanza negli stessi posti? Non è forse un progresso sociale? La vera presa della Bastiglia è dunque RyanAir a St. Barts? O una sala d’attesa per la prima classe del Frecciarossa a Ovindoli?
La signora che su TikTok ha fatto, come dice lei, «dei bellissimi vidi» da Roccaraso, originando quindi l’invasione dei torpigna nella più torpigna delle località turistiche (fenomeno d’ora in poi noto come «overtorpigna»), la signora ha le unghie a punta come tutte, una dizione raccapricciante come tutte, le sopracciglia disegnate come tutte.
Perché fa notizia più delle altre? Perché, nell’estetica mignottesca che domina il mondo ovunque, nell’alta società come al governo, scegliamo di stringere spaventate le nostre perle di fronte alla burina col colbacco e la telecamera nel telefono? Perché «la gente può andare benissimamente a portare i bambini pure con pochi soldi», e ci fanno schifo i poveri? Perché, come quel Benigni della nostra gioventù, riteniamo che la signora non ci somigli per niente?
Sì, probabilmente è quello. È che abbiamo continuato a dire che a Londra, signora mia, c’era ormai troppa gente, come se quella gente non fossimo tutti noi che ci andavamo coi low cost a cinquant’anni assai più spesso di quanto potessimo fare a quindici. È che gli altri siamo noi solo nelle canzonette: nella vita, ci stringiamo nel visone della signora Covelli e inorridiamo per evasori fiscali, parcheggiatori in doppia fila, elettori di destra, torpigna, e tutte quelle categorie che sono sempre gli altri; noi mai.