Milano. New York Times e Washington Post si sono schierati formalmente, e in modo opposto, sulle elezioni irachene del 30 gennaio. Secondo il quotidiano newyorchese, da sempre ostile a Iraqi Freedom, le elezioni vanno posticipate a tutti i costi, viceversa si rischia la guerra civile. Il giornale della capitale, molto più sensibile al potere delle elezioni, è invece convinto che le urne debbano aprirsi nel giorno stabilito, pena il trionfo di chi usa il terrore per ottenere vantaggi politici. Entrambi hanno dedicato alla questione il loro primo editoriale, il Times ieri, il Post martedì.
La differenza di vedute nasce dalla diversa valutazione della situazione nelle quattro province irachene (su diciotto) dove continuano gli scontri e aumentano gli attentati. L’Iraq è un paese a maggioranza religiosa sciita (60 per cento), il resto della popolazione è islamica sunnita (20 per cento), di etnia curda (18 per cento). Il regime di Saddam si fondava sullo strapotere della minoranza sunnita e sulla sottomissione della maggioranza sciita. Le elezioni democratiche, ovviamente, affideranno le chiavi dell’Iraq agli sciiti, ma i sunniti temono di venir schiacciati dalla maggioranza. Non sono, scrive il Times, soltanto gli orribili terroristi e i guerrasantieri di Osama a pensarla così, ma anche i sunniti perbene: "Gli sciiti devono insomma dimostrare che non tratteranno i sunniti nel modo in cui in passato sono stati trattati dai sunniti". Il Times chiede due o tre mesi di tempo, "un ritardo nel voto sembra offrire almeno un raggio di speranza e spinge l’Iraq nella direzione che ha disperato bisogno di seguire: verso una democrazia in cui tutte le religioni e tutti i gruppi etnici abbiano un ruolo". Il Washington Post ha in mente lo stesso obiettivo, ma pensa che la soluzione offerta dal Times porti fuori strada: "I contrari a questa data elettorale sbagliano spesso a definire la natura della terribile violenza che affligge Baghdad e l’area dell’Iraq popolata dai sunniti. Il conflitto centrale non è più, se mai lo è stato, tra la forza d’occupazione guidata dagli Stati Uniti e una popolazione offesa; né è una battaglia tra chi è favorevole a una democrazia di tipo occidentale e gli estremisti islamici locali e stranieri. Il problema più grande è la resistenza dell’ex élite irachena a un sistema politico che avrà l’effetto di dare il potere alla comunità sciita maggioritaria e di ridurre gli arabi sunniti a un’influenza commisurata al 20 per cento della popolazione che probabilmente rappresentano".
(segue dalla prima pagina) L’effetto delle elezioni, secondo il Post, sarà quello di dare forza agli sciiti, e all’Iraq un governo sostenuto per la prima volta dalla maggioranza. I leader sciiti saranno interessati alla stabilità, e per ottenerla dovranno trovare un accordo con le minoranze. "Se il voto verrà posticipato, l’effetto sarà quello di dare forza agli insorti sunniti, al punto che la violenza diventerà uno strumento di influenza più efficace della democrazia".
Il New York Times giudica un errore clamoroso aver sciolto l’esercito iracheno. Tesi smentita, ieri sul Wall Street Journal, da Paul Bremer, l’americano che ha guidato l’Iraq fino al 30 giugno scorso. E’ un falso mito, ha scritto. Intanto l’esercito s’era già sciolto, perché così aveva deciso Saddam. I capi sono andati a organizzare la guerriglia, mentre i soldati di leva erano in maggioranza sciiti e quindi ben contenti di tornare a casa. Gli stipendi, ha svelato Bremer, dal luglio del 2003 sono stati pagati a tutti, tranne che ai capi. La de-baatificazione, cioè il licenziamento dei più alti dirigenti del regime, è ancora oggi il provvedimento più popolare in Iraq: "E’ stata la scelta giusta". L’esercito e l’amministrazione civile erano guidati da sunniti che terrorizzavano sciiti e curdi. Se non avessimo preso quelle decisioni, ha scritto Bremer, curdi e sciiti, cioè l’80 per cento degli iracheni, non si sarebbero fidati di noi e non avrebbero creduto possibile provare a creare un nuovo Iraq.