Roma. L’ordine non scritto è di far finta di niente, di non rompere l’unità, di non fare come quei ministri che alla prima occasione l’hanno già sparata grossa e messo in difficoltà la coalizione. L’idea è di aspettare, di leggere bene le carte, di battersi fino all’ultimo e di non dare per scontato che la partita sia persa del tutto. La grana “ritiro dall’Iraq” non è ancora diventata una crisi, ma viste le ultime evoluzioni è chiaro che ci sono due, forse tre, sconfitti tra le anime del governo Prodi: i rutelliani, i radicali, i dalemiani. I vincitori sono gli altri, la sinistra antagonista forte dell’asse Prodi-Bertinotti cui sembra essersi piegato Massimo D’Alema. Nei corridoi di Montecitorio la soddisfazione dei comunisti è palese, tanto che da Rifondazione e Verdi arrivano voci che invitano a ripensare anche la presenza italiana in Afghanistan.
Il punto è questo: il fumoso programma di governo dell’Unione diceva che la maggioranza di centrosinistra avrebbe ritirato le truppe italiane dall’Iraq e che l’impegno sarebbe continuato sotto altre forme. La vaghezza compromissoria aveva portato l’ala sinistra dell’Unione, cioè i due partiti comunisti e i verdi, a chiedere il ritiro di tutti i soldati magari entro l’estate, mentre dalemiani e rutelliani avvertivano che bisognava comunque concordare il rientro con il governo iracheno e secondo un calendario studiato insieme con la forza multinazionale legittimata dall’Onu. I radicali, che quel programma non l’hanno firmato, avevano addirittura chiesto di non affrettarsi a ritirare le truppe. Il dalemiano Marco Minniti e poi via via tutti gli altri, compreso D’Alema, credevano di aver trovato la quadratura del cerchio: chiudere la missione militare “Antica Babilonia” entro il 2006 e trasformarla in missione civile finalizzata alla ricostruzione, però protetta per ragioni di sicurezza da poco meno di un migliaio di soldati. Questo schema, venerdì scorso, è stato spazzato via dall’accordo Bertinotti-Prodi cucito da Enrico Letta e accettato a denti stretti da D’Alema con Rutelli stranamente silente. L’Italia quindi ritirerà tutte le truppe alla Zapatero, non lascerà in Iraq nessun uomo, nemmeno un civile, perché nella maggioranza non c’è l’accordo sui soldati necessari alla loro protezione. Francesco Rutelli, e chi sui temi di politica estera fin qui ha provato a differenziarsi dalla sinistra antagonista, invita alla prudenza, a non dare per scontato che la missione civile sia saltata e ad aspettare l’incontro tra D’Alema e Condoleezza Rice del 12 giugno. L’ala liberaldemocratica dell’Unione non ha nessuna voglia di puntare i piedi e rimanda alla riunione di oggi, quella preparatoria dell’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, e al Consiglio dei ministri stesso di giovedì. A Radio 24 il capogruppo di Rifondazione, Gennaro Migliore, ha detto che i soldi previsti per mantenere i soldati potrebbero essere consegnati direttamente agli iracheni per la costruzione di opere civili, tradendo il mantra pacifista “non un uomo, non un soldo” all’impresa irachena. Romano Prodi ha precisato che il ritiro sarà deciso “collegialmente” dal governo, proprio mentre l’ambasciatore americano, Ronald Spogli, ha ribadito che il suo paese spera ancora che l’Italia garantisca, come promesso, una presenza civile.
Repubblica ha svelato che l’incontro Rice-D’Alema è stato organizzato quando ancora la posizione italiana era di mantenere in Iraq 800 uomini a protezione del contingente civile. Una gaffe o la ragione per cui i margheritici invitano a non tirare le somme? I solitamente loquaci radicali, più imbarazzati che mai, malgrado la sollecitazione del Foglio hanno preferito non aprire bocca.
30 Maggio 2006