Gli ultimi due anni e mezzo di George W. Bush non saranno uno scherzo. In oltre novecento giorni può succedere qualsiasi cosa, la presidenza può subire scossoni e uscirne travolta, devastata, affossata oppure esattamente l’opposto. In poco meno di tre anni, l’incerottata, ferita e indebolita Casa Bianca di Bush di questi mesi potrebbe addirittura rilanciarsi, provare a ritagliarsi un posto d’onore nella storia americana ed essere ricordata per altro che non i disastri in Iraq, l’inefficienza a New Orleans, il deficit nei conti pubblici e la diffusione dell’antiamericanismo nel mondo. Il punto è che da qui al 20 gennaio 2009, quando alla Casa Bianca si insedierà un altro presidente, Bush ha di fronte a sé un numero di giorni più o meno uguale a quello dell’intera presidenza epocale e mitica di John Fitzgerald Kennedy. Il tempo non manca. Ecco perché proprio in questi giorni, con la nomina del nuovo ministro del Tesoro, Bush ha completato la squadra di governo per quello che gli analisti cominciano a chiamare il suo terzo mandato. Il primo è stato trionfale. Il secondo, dal giorno della rielezione del 2004 a oggi, disastroso. Ora comincia il terzo con l’incognita delle elezioni di metà mandato e della sostituzione di Alan Greenspan alla guida della Federal Reserve con Ben Bernanke, ma anche con un staff nuovo di zecca, un nuovo portavoce, un nuovo capo della Cia, un nuovo responsabile dell’Economia scelto tra i big di Wall Street e con Karl Rove tornato a fare ciò che sa fare, cioè a organizzare il consenso nel paese.
Bush entra in questi suoi ultimi due anni e mezzo nel modo peggiore possibile, con mille questioni aperte, l’indice di gradimento sotto il 30 per cento, il solito odio feroce degli avversari e la disaffezione della sua base elettorale. La sua legacy presidenziale, cioè l’eredità politica per cui negli anni a venire sarà ricordato oppure dimenticato, è ancora di difficile definizione e con un giudizio sospeso tra l’essere considerata visionaria oppure nefasta. Questa della legacy politica è un’ossessione che condiziona le scelte di quasi tutti i presidenti che si avviano alla fine del loro mandato. Inseguito dallo scandalo Lewinsky, Bill Clinton provò in tutti i modi a far firmare un qualunque trattato di pace a israeliani e palestinesi, malgrado fosse chiaro che Yasser Arafat non l’avrebbe rispettato. L’obiettivo era quello di essere ricordato come il presidente della pace in medio oriente. Gli andò male, come spesso capita quando comincia a mancare il tempo e l’ansia di ottenere qualcosa finisce per corrompere le scelte politiche.
Al momento Bush sembra immune da questa ansia o perlomeno sa già che la sua esperienza sarà comunque ricordata nei decenni a venire per la risposta al terrorismo fondamentalista, per la difesa del suo paese con la guerra preventiva e per la dottrina di democratizzazione del mondo islamico. Per i suoi critici, specie d’oltreoceano, questi non sono altro che capi d’imputazione di una sentenza dall’esito scontato: una condanna senza appello per aver organizzato una controffensiva che fin qui ha ampliato la base dei terroristi, moltiplicato le stragi e ucciso 2.500 soldati americani. Michael Barone, cioè il più grande conoscitore di dinamiche politiche ed elettorali d’America, dice però che Bush ha un senso della storia migliore rispetto a quello dei suoi critici. Non solo perché i 2.500 caduti sul fronte iracheno sono infinitamente di meno dei 58.219 del Vietnam, dei 54.246 della Corea e dei 405.399 della Seconda guerra mondiale, ma anche per altro. Questa è soltanto macabra e stupida contabilità. Parlando ai cadetti di West Point, pochi giorni fa Bush ha spiegato la prospettiva della battaglia generazionale contro il fondamentalismo islamico, ricordando le sfide americane di oltre sessanta anni fa: “Nei primi anni di quella battaglia, la vittoria della libertà non era né scontata né ovvia”. Un anno dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Harry Truman era al fianco di Winston Churchill quando in Missouri il premier inglese pronunciò quello che poi passò alla storia come il discorso della cortina di ferro. In quel momento, pochi mesi dopo la missione compiuta contro il nazifascismo, la guerra è continuata sotto altra forma ed è cominciata ufficialmente la Guerra Fredda. L’anno successivo, nel 1947, i comunisti minacciarono la Grecia e la Turchia e il presidente americano rispose sborsando 400 milioni di dollari ed elaborando la cosiddetta dottrina Truman, impegnando gli Stati Uniti a intervenire militarmente a sostegno di tutti i popoli minacciati da minoranze armate o pressioni esterne. Nel 1948 cadde la Cecoslovacchia, mentre Francia e Italia sembravano indirizzati nella stessa direzione. I sovietici circondavano Berlino e nel 1949 fecero esplodere una bomba atomica. Nel 1950 la Corea comunista attaccò la Corea del Sud e gli americani furono costretti con tutta la loro potenza militare a intervenire su quel fronte asiatico. “Tutto questo è accaduto nei primi cinque anni successivi alla Seconda guerra mondiale – ha ricordato Bush ai cadetti di West Point – Fortunatamente avevamo un presidente come Truman capace di riconoscere la natura della minaccia, di intraprendere azioni coraggiose per affrontarla e di porre le basi per la vittoria della libertà nella Guerra fredda”.
Le azioni coraggiose di Truman furono parecchio controverse all’estero come in patria, sia tra i suoi oppositori repubblicani sia all’interno del suo partito. I democratici, addirittura, si divisero. Una parte del partito dell’asinello, guidata non dall’ultimo pivello ma dal vicepresidente di Franklin Delano Roosevelt, cioè da Harry Wallace, uscì dal partito perché non considerava la minaccia sovietica così pericolosa come i rigurgiti reazionari e protofascisti dei governi e dei partiti di destra. Truman impose con molte difficoltà il Piano Marshall, oggi considerato uno strumento ineguagliabile di politica estera buona e giusta, organizzò un ponte aereo sulla Berlino assediata dai sovietici che allora sembrò una provocazione capace di scatenare un’altra guerra. Truman costituì addirittura un’alleanza militare ai confini dell’Unione Sovietica che imponeva agli stati membri di intervenire militarmente se uno di essi fosse stato attaccato dai sovietici. Quell’alleanza era la Nato, un’organizzazione che fino all’altro ieri era vista come lo strumento militare dell’imperialismo americano e che ora viene invocato come dispensatore di legittimità e legalità internazionale. Infine, Truman invase la Corea. Nessuna di queste iniziative è stata presa con l’unanimità dei consensi, diciamo così. Nessuna di queste mosse è stata eseguita alla perfezione. Truman è stato molto criticato e i suoi indici di gradimento erano addirittura inferiori a quelli odierni e bassissimi di Bush. Senza dimenticare che, praticamente a Seconda guerra mondiale finita, Truman sganciò non una ma addirittura due bombe nucleari sul Giappone. Truman lasciò la Casa Bianca con la reputazione sotto la polvere, rinunciando a ricandidarsi a un terzo mandato (è stato l’ultimo presidente che avrebbe potuto farlo), proprio a dimostrazione del suo fallimento politico. Oggi è considerato uno dei più grandi presidenti americani, invocato da Bush medesimo, idolatrato dai neoconservatori, cioè dagli ex democratici passati a destra, e oggetto di studio e ammirazione delle più lucide strategie democratiche per tornare alla vittoria nel 2008.
Truman e Bush hanno molto in comune. Nessuno dei due s’è mai davvero preoccupato del gradimento popolare: “Non sono i sondaggi né l’opinione pubblica del momento a contare – ha detto Truman, ma potrebbe benissimo essere stato Bush – E’ importante ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e soprattutto la leadership”. Lo stile da cowboy di Bush – o con me o contro di me e l’asse del male – è perfettamente sovrapponibile con la linea tracciata sulla sabbia da Truman e la minaccia ai sovietici di scatenare una guerra mondiale se Stalin avesse provato a oltrepassarla. Le sfumature non erano il forte di Truman, come non lo sono di Bush: “Nazisti, comunisti, fascisti o franchisti sono tutti uguali. Lo stato di polizia è lo stato di polizia, non mi importa come lo chiamate”. La frase è di Truman, ma suona familiare rispetto a qualsiasi dichiarazione bushiana di questi anni. Truman, come Bush, è stato accusato di aver militarizzato la politica estera, di aver indebolito la Costituzione e di voler distruggere le Nazioni Unite. Niente di nuovo, dunque.
I due presidenti non hanno soltanto agitato o usato il bastone, entrambi hanno speso capitale politico, umano e finanziario per ricostruire i paesi invasi e instaurare regimi democratici. Gli avversari di Bush, malgrado l’evidenza dimostri il contrario, sostengono che la promozione della democrazia sia stata una giustificazione posticcia, escogitata una volta che non sono state trovate le armi di distruzione di massa. All’inizio anche Truman non aveva alcuna intenzione di ricostruire l’Europa e il Giappone, né di far nascere la democrazia in quei due continenti. Il suo obiettivo, come quello di Bush, era quello di ritirare al più presto le truppe. Soltanto successivamente si è impegnato nella ricostruzione e nella promozione della democrazia. Il Piano Marshall, per dire, è del 1948, successivo di tre anni alla fine del secondo conflitto mondiale.
Se Bush è accusato di aver abusato dei suoi poteri presidenziali sulle questioni di sicurezza nazionale, Truman è il presidente che ha creato la National Security Agency, al centro degli scandali di questi mesi, per monitorare e decifrare le informazioni provenienti da tutto il mondo. Non solo. Truman ha fondato la Cia per difendere l’America contro le spie e i sabotatori e ha creato il Consiglio di sicurezza nazionale.
Lo storico inglese Niall Ferguson nel suo “Colossus – Ascesa e declino dell’impero americano” (Mondadori) ricorda come all’inizio del 1950 Truman aveva con sé l’81 per cento degli americani al momento in cui decise l’invasione della Corea. Un anno dopo, a causa delle difficoltà di quella guerra, il suo gradimento è crollato al 26 per cento. Poco prima, alle elezioni di metà mandato del novembre 1950, il partito di Truman perse 29 seggi alla Camera e 6 al Senato. Questa altalena di consensi la sta vivendo in prima persona anche Bush e l’esito elettorale disastroso potrebbe ripetersi il prossimo 8 novembre, quando il partito repubblicano potrebbe perdere il controllo della Camera o del Senato o di tutti e due. Ai democratici serve conquistare 15 seggi alla Camera e 5 al Senato. Un’ipotesi non impossibile, per certi versi probabile, ma non a causa dell’Iraq. La guerra al terrorismo e gli sforzi in medio oriente restano, sia pure in forte ribasso, comunque il punto forte del consenso presidenziale. L’impasse iracheno e il numero di morti americani che aumenta giorno dopo giorno non aiutano Bush, ma sul fronte elettorale sono altre le questioni che potrebbero provocare la sua sconfitta di metà mandato: l’immigrazione, il deficit federale, la spesa pubblica e il costo della benzina. Su ciascuno di questi argomenti, Bush ha un approccio più liberal che di destra, propone soluzioni più di sinistra che conservatrici. Da qui le frequenti accuse di tradimento delle tradizionali politiche repubblicane, provenienti da ex politici legati a Nixon, a Reagan e a Bush senior, oltre che dai rumorosi e seguitissimi conduttori di talk show radiofonici. La Casa Bianca si difende ricordando il voluminoso record di iniziative conservatrici sul taglio delle tasse, sulla sicurezza nazionale e in difesa dei valori americani, ma anche sulla politica estera Bush è costretto a difendersi da accuse di velleitarismo e di idealismo liberal. Se c’è da individuare una singola cosa che a novembre potrebbe causare la sconfitta del Grand Old Party repubblicano, questa non va cercata tra le questioni al centro del dibattito politico. Piuttosto a minacciare la maggioranza conservatrice al Congresso è l’odore di corruzione, il logorio del potere, la contiguità con le lobby. Nel 1994 i repubblicani, allora guidati da Newt Gingrich, presero il controllo della Camera dei rappresentanti, e poi del Senato, proprio perché gli americani non ne potevano più del dominio democratico a Washington. I repubblicani si presentarono come il partito del rinnovamento, dell’aria nuova, dell’America rurale, vera e sincera contro l’avidità di Capitol Hill. Ora, dopo dodici anni di dominio incontrastato dei repubblicani, il sentimento diffuso è esattamente opposto. E’ il Grand Old Party a essere pienamente identificato con Washington, con l’establishment e con l’ingordigia del potere. Lo scandalo del lobbista Jack Abramoff e del suo giro di furbetti di K street (la strada della capitale dove hanno sede le lobby) è devastante proprio per questo, più che per i suoi aspetti processuali ancora da verificare. Ieri il partito di Bush ha tirato un sospiro di sollievo: nel collegio liberatosi alcuni mesi fa per l’arresto del deputato repubblicano Randy Cunningham ha rivinto un conservatore, ma i quattro punti di scarto – in un distretto dove solitamente la differenza è di 10 – non riusciranno a tranquillizzare del tutto gli strateghi della Right Nation.
E se ora è stato preso con le mani nella marmellata un importante deputato democratico dell’Alabama, William Jefferson, il tanfo della corruzione non si è spostato sul partito all’opposizione, piuttosto resta appiccicato su chi mantiene il potere, sull’establishment di Washington, quindi sempre sui repubblicani. Bush non ha aiutato il suo partito, sotto questo punto di vista. Non perché succube delle lobby dei petrolieri o magari delle corporation, come denunciano le forze antagoniste di mezzo mondo. Il ribelle in capo Bush, eletto anche in quanto un uomo estraneo alla politica politicante e ai giri di Washington a dispetto del cognome importante, ha contribuito a questo nuovo sentimento populista autorizzando ogni legge di spesa proposta dal Congresso e non ponendo mai il veto presidenziale a nessuna delle leggine approvate ad hoc per soddisfare questa o quella esigenza clientelare dei singoli parlamentari. Il tutto in una situazione di bilancio federale in perenne rosso a causa di un aumento della spesa pubblica non militare che negli anni di Bush ha raggiunto livelli senza precedenti. A novembre, meno decisivi saranno gli scandali spionistici, il Ciagate, le accuse di aver ascoltato le telefonate senza decreto giudiziario e di voler tenere sotto controllo la vita privata degli americani. Un po’ perché l’opinione pubblica condivide le scelte compiute in un momento in cui la minaccia terroristica è evidente, un po’ perché potrebbero addirittura avere l’effetto contrario a quello sperato dai democratici. Gli esponenti più radicali del partito democratico, dal senatore Russ Feingold alla leader della Camera Nancy Pelosi, dicono apertamente che in caso di vittoria a novembre, useranno i poteri giudiziari del Congresso per muovere formale accusa al presidente di aver violato la Costituzione spiando illegalmente gli americani. Queste dichiarazioni terrorizzano l’ala moderata dei democratici e galvanizzano i repubblicani, i quali sono convinti che le parole di Feingold e di Pelosi da un lato ricorderanno agli indipendenti che sulle questioni di sicurezza nazionale dei democratici non ci si può fidare, mentre dall’altro mobiliteranno quei conservatori delusi da Bush ma sempre pronti a rischierarsi di fronte al pericolo di un Congresso liberal che potrebbe impedire al comandante in capo di difendere il paese e proteggere a dovere gli americani.
Su questo punto si giocano le elezioni di metà mandato, sulla capacità dei repubblicani e di Bush di mobilitare il proprio elettorato come sono riusciti mirabilmente a fare alle presidenziali del 2004. La tradizione gioca a sfavore di Bush, perché alle elezioni di midterm vota meno gente che alle presidenziali. In più conteranno la delusione degli evangelici, le accuse di aver tradito i valori conservatori e il sentimento populista contro il partito al potere a Washington.
A oggi Bush può contare su tre dati positivi intorno ai quali poter provare a ribaltare i pronostici. Il primo è un argomento che non sarà usato apertamente, ma che è lì davanti agli occhi di tutti: dall’11 settembre a oggi sul suolo americano non c’è più stato alcun attentato terroristico, ma la minaccia e le probabilità non sono affatto diminuite per cui resterà sottotraccia. Malgrado gli errori compiuti sul campo, l’idea di combattere i terroristi a casa loro non è giudicata come una scelta bislacca: “Meglio a Bassora che a Baltimora”, è uno slogan che non si ascolterà in campagna elettorale, ma il cui senso non sfuggirà a nessuno.
La Casa Bianca può vantare due straordinari dati: la crescita economica, ora al 5,3 per cento, e il tasso di disoccupazione più basso dal 2000, oggi al 4,8 per cento. Inoltre la Borsa di New York ha raggiunto livelli impensabili, gli acquisti delle case aumentano e perfino il prezzo della benzina sta scendendo. Con il nuovo ministro del Tesoro Henry Paulson, ex capo della Goldman Sachs, Bush prova a convincere anche il grande potere finanziario, tradizionalmente vicino ai democratici. I liberisti sono stati accontentati con un’altra tranche da 70 miliardi di dollari di tagli di tasse. Karl Rove è in campo per risollecitare gli evangelici. Il primo passaggio è stato il ritorno in aula, proprio ieri, del progetto di emendare la Costituzione inserendo ciò che Clinton fece inserire nella legislazione ordinaria: cioè che il matrimonio è un contratto fra un uomo e una donna. Le Corti locali hanno trovato il modo di aggirare la legge in difesa del matrimonio, sicché l’emendamento costituzionale ha l’obiettivo di bloccare i giudici militanti che ribaltano la volontà popolare. L’emendamento non ha alcuna possibilità di passare – serve una maggioranza qualificata e ieri è stato bocciato ancora una volta – ma serve a Bush e ai repubblicani per galvanizzare il popolo dei valori e dare un segnale alla maggioranza degli americani contraria alle nozze gay. Dopo l’inciampo su Harriet Myers, Bush potrà far pesare i successi alla Corte Suprema, con la doppia nomina di John Roberts e Samuel Alito. Ora si prepara a nominare altri giudici conservatori nelle corti federali e, a breve, potrebbe avere la possibilità di una terza scelta alla Corte Suprema grazie alle dimissioni dell’ottantaseienne John Paul Stevens.
A novembre Bush dovrà difendersi dall’accusa di aver fatto crescere il deficit federale e non potrà portare in dote né la riforma della sanità né, soprattutto, quella della previdenza sociale, combattuta dal suo stesso partito e, proprio in questi giorni, lodata dall’ex ministro del lavoro di Clinton, Robert Reich. La questione dell’immigrazione è quella cruciale. La base del partito repubblicano rifiuta ogni forma di amnistia nei confronti dei 12 milioni di immigrati clandestini e pretende soltanto misure drastiche e l’impossibile militarizzazione dei confini. Pochi mesi fa la posizione di buon senso di Bush a favore dei permessi di lavoro temporanei per chi già lavora negli Stati Uniti sembrava destinata al fallimento. Ora il Senato ha approvato una legge su questa scia, completata dall’idea di costruire un muro al confine col Messico. La più battagliera Camera ora sembra pronta ad ammorbidire la sua intransigenza, anche perché senza mediare non porterà a casa nulla. E Karl Rove sta spiegando ai più esagitati tra i repubblicani che inimicarsi tutti i latinos non è una grande strategia elettorale. Sicché è probabile che prima delle elezioni, Bush avrà l’opportunità di firmare la tanto attesa legge per regolamentare l’immigrazione clandestina .
8 Giugno 2006