Camillo di Christian RoccaLa guerra giuridica contro il Jihad (Passeggiate americane – 6)

La recente sentenza della Corte suprema di Washington sui processi nei confronti di un detenuto di Guantanamo è stata descritta, a ragione, come un duro colpo per l’architettura giuridica disegnata dall’Amministrazione Bush per fronteggiare il terrorismo jihadista nel mondo post 11 settembre. Diciamo che a leggere i giornali, specie quelli italiani, ce ne siamo accorti ampiamente. La conseguenza diretta di questa sentenza è che il Pentagono, almeno per ora, non potrà giudicare i prigioneri catturati in Afghanistan utilizzando lo strumento delle commissioni militari, che sono corti speciali istituite ad hoc e con regole meno garantiste delle corti marziali. Ci siamo accorti un po’ meno di un altro effetto di questa decisione presa da 5 giudici supremi su 9 che hanno votato la sentenza del caso “Hamdan vs Rumsfeld”. L’effetto taciuto di questa decisione è una bocciatura ancora più netta delle tesi di chi in questi anni, e ancora oggi, giudica illegali quelle detenzioni e illegittime le scelte giuridiche dell’Amministrazione. La Corte suprema non ha messo in discussione l’esistenza del carcere di Guantanamo, tantomeno ne ha chiesto la chiusura. Anzi ha confermato come legittime le scelte della Casa Bianca. L’alta corte americana non ha messo in discussione il diritto dell’Amministrazione Bush di detenere Salim Ahmed Hamdan, già autista di Osama bin Laden, né nessun altro prigioniero di Guantanamo. Al contrario, ha ribadito questo diritto.
La sentenza non ha nemmeno deciso che i “nemici combattenti” catturati in battaglia debbano essere trattati come cittadini comuni e quindi processabili da corti ordinarie, come chiedono i radical americani e la sinistra europea. La sentenza, piuttosto, ha stabilito che, se il Pentagono vorrà processare i prigionieri stranieri detenuti a Guantanamo con le più agili commissioni militari costituite ad hoc, le procedure dovranno comunque essere conformi a quelle previste dalle corti marziali ordinarie, specie riguardo alla formulazione dei capi d’imputazione e alla raccolta delle prove. Oppure, come hanno esplicitamente suggerito 4 dei 5 giudici supremi che hanno espresso l’opinione maggioritaria della sentenza, Bush potrà chiedere al Congresso l’autorizzazione a usare le commissioni militari nel modo che preferisce. Se il Congresso gli dice sì, può fare come vuole. I consulenti giuridici della Casa Bianca, però, sostengono che l’autorizzazione non sia necessaria.
In ogni caso, il Pentagono potrà sempre ricorrere alle corti marziali per processare i detenuti di al Qaida. Secondo l’interpretazione di due ex funzionari delle Amministrazioni Reagan e Bush padre, la cui opinione è stata ospitata lunedì dal Wall Street Journal, la Corte non ha nemmeno escluso che il ricorso alle commissioni militari possa avvenire senza ulteriori pronunciamenti del Congresso. I due giuristi fanno notare che la sentenza dice che il presidente non ha spiegato i motivi per cui sarebbe opportuno usare le commissioni militari ad hoc senza le regole delle corti marziali. La conseguenza, secondo David Rivkin e Lee Casey, è che, se Bush articolasse una giustificazione sufficiente, la scelta di non applicare le regole delle corti marziali sarebbe permessa senza nemmeno bisogno di ottenere l’autorizzazione del Congresso. E’ difficile che ciò accada, ma al di là degli aspetti tecnici è chiaro che il colpo inferto dalla Corte alle politiche di Bush non è affatto su Guantanamo, né sulla detenzione illimitata dei prigionieri per tutta la durata delle ostilità. Non è nemmeno una critica al presidente per non aver formalizzato un’accusa precisa ai prigioneri, né un invito a rivedere la scelta di negare ai “nemici combattenti” lo status giuridico di prigionieri di guerra, come se i presunti terroristi fossero soldati regolari di uno stato contraente la Convenzione di Ginevra e non, come invece sono, affiliati a un’organizzazione terroristica internazionale.
La sentenza della Corte suprema non dice che a Guantanamo si violano i diritti umani e non contiene una parola a favore della chiusura del carcere. Il colpo inferto alla Casa Bianca è sull’interpretazione dell’estensione dei poteri di guerra del presidente. Secondo Bush (e secondo 4 giudici supremi su 9) il potere di condurre una guerra e di difendere la sicurezza nazionale comprende anche la possibilità di compiere atti senza richiedere l’esplicita autorizzazione del Congresso. Su questo stesso crinale si muovono le polemiche intorno ai programmi segreti di sicurezza nazionale elaborati dalla Casa Bianca e scoperti con ampio clamore dai grandi giornali americani: il piano di ascolto di telefonate dall’estero verso gli Stati Uniti effettuate da presunti terroristi; il mega-archivio con i dati di tutte le chiamate in entrata e in uscita da ogni telefono americano per poter effettuare incroci e risalire a eventuali connessioni sul territorio nazionale e, infine, il monitoraggio delle transazioni finanziarie di persone sospettate di jihadismo.
Gli oppositori della Casa Bianca sostengono che queste scelte di Bush, compiute senza un’esplicita autorizzazione del Congresso, vadano oltre i poteri costituzionali assegnati al presidente, se non costituiscano addirittura crimini federali. Bush dice, invece, che rientrano nei suoi poteri di comandante in capo di una nazione in guerra. La Corte suprema nel corso della sua storia ha sempre rifiutato di risolvere i conflitti di questo tipo, limitandosi a chiedere che sia il Congresso ad autorizzare le intrusioni del presidente nella sfera dei diritti individuali e le possibili limitazioni delle libertà civili, anche quando in gioco c’è la sicurezza nazionale. In realtà, sul caso Hamdan su cui la Corte ha appena deciso, il Congresso si è già espresso con il Detainee Treatment Act lo scorso dicembre. Questa legge nega espressamente agli stranieri detenuti a Guantanamo il diritto di ricorrere contro la propria detenzione, esattamente come aveva statuito una sentenza della Corte del 2004 (Hamdi contro Rumsfeld). In quell’occasione, la Corte ha deciso che il cittadino americano Yaser Esam Hamdi – catturato in Afghanistan nel 2001, portato a Guantanamo e subito trasferito in un carcere americano quando si è scoperto che non era uno straniero – aveva il diritto di ricorrere davanti a un giudice imparziale contro la sua detenzione. Contemporaneamente, però, la Corte ha riconosciuto il potere del governo di detenere “i nemici combattenti” stranieri senza muovere loro accuse formali e fino al termine della guerra. Sulla base delle tradizioni belliche, di trattati internazionali e della Convenzione di Ginevra, la Corte ha deciso che la Casa Bianca ha l’autorità per tenere in prigione i nemici fino alla fine della guerra al terrorismo, la cui data non è facile individuare. A Bush il potere è stato conferito subito dopo l’11 settembre con l’autorizzazione a usare la forza approvata a larga maggioranza dal Congresso.
Una stretta osservanza del Detainee Treatment Act del dicembre 2005, la legge con cui il Congresso ha dato al presidente il potere di negare il processo ai nemici combattenti stranieri, avrebbe dovuto impedire alla Corte di esaminare il caso posto dai legali dell’autista di bin Laden. Ma è prevalsa l’interpretazione per cui quella legge si applica soltanto ai ricorsi effettuati dopo l’approvazione della legge, e non era questo il caso della richiesta di Hamdan. Il Wall Street Journal ha ricordato che il giudice Antonin Scalia, nella sua opinione contraria alla sentenza, ha contestato questa interpretazione notando che la legge non fa queste distinzioni temporali e che, anzi, il Congresso l’ha scritta proprio avendo in mente il caso dell’autista di bin Laden che da lì a poco sarebbe stato discusso dalla Corte. La maggioranza dei giudici ha voluto rimarcare che il potere presidenziale di istituire le commissioni militari è limitato a casi particolari e speciali, a meno che non ci sia un’esplicita autorizzazione del Congresso. Il punto di scontro è esattamente questo: un presidente in guerra ha il potere di prendere le decisioni necessarie a difendere il proprio paese, oppure di volta in volta deve cercare l’autorizzazione del Congresso?
La Costituzione americana dà al presidente il potere di guidare il paese in guerra e lascia al Congresso il potere di dichiararla e di finanziarla. In caso di emergenza nazionale, le decisioni che necessitano di velocità e risolutezza spettano al presidente perché spesso non si può aspettare che a decidere sia un’assemblea composta da centinaia di persone. La discussione americana, dunque, verte sui poteri presidenziali di guerra e sul punto di equilibrio da trovare tra la necessità di difendere la sicurezza nazionale e il rischio conseguente per le libertà civili. Tra i radical statunitensi e nell’opinione pubblica europea, invece, il succo della questione sembra essere un altro, di stampo quasi negazionista: in fondo, dicono, non c’è vera emergenza, non c’è conflitto reale, non c’è minaccia imminente, sicché ogni strumento politico, militare o d’intelligence escogitato dai governi, anche europei, per fronteggiare muscolarmente il terrorismo islamista è da giudicare sopra le righe, se non illegittimo.
Il caso Guantanamo è emblematico, anzi è il simbolo di questa incomprensione e di questa differenza di analisi transatlantica su cui si è innestato l’antiamericanismo delle élite della sinistra intellettuale europea. Nell’immaginario collettivo Guantanamo è il carcere delle torture, un non-luogo dove le mostruosità capitate ad Abu Ghraib sono regola e costume quotidiano. Sembra quasi che ciascuno di noi, che sia occidentale o arabo, rischi da un momento all’altro di finire torturato a Guantanamo. Non c’è niente di vero in tutto questo. Innanzitutto i numeri: dall’inizio del 2002 a oggi nel carcere di Guantanamo sono transitati soltanto 750 prigionieri sui 70 mila combattenti arrestati in Afghanistan durante l’intervento angloamericano di fine 2001. I terroristi, o presunti tali, catturati in Iraq restano in Iraq, così come quelli arrestati in Europa o altrove. Nessuno di loro finisce a Guantanamo, né rischia di finirci. Questo non vuol dire che la gestione della guerra al terrorismo proceda liscia come l’olio e con ogni garanzia delle libertà civili. Tutt’altro. Dopo l’11 settembre, Washington ha immediatamente arrestato circa 1.200 stranieri, alcuni anche per diversi mesi, senza accusarli di un reato specifico, senza avvertire le famiglie, senza concedere loro il ricorso a un giudice terzo. Molti non avevano commesso alcun reato e a poco a poco la situazione si è andata normalizzando. La Casa Bianca però non si è fermata. Intanto ha spiato telefonate sul territorio americano (pratica diffusa in Italia anche a proposito di partite di calcio e di vallette, ma che negli Stati Uniti è giustamente giudicata come una misura eccezionale da usare con le molle). La Cia ha costituito una serie di prigioni segrete in giro per il mondo di cui si sa poco o nulla, mentre si conoscono gli abusi nel carcere della base di Baghram. Dal punto di vista giuridico la Casa Bianca ha deciso di non applicare ai terroristi le garanzie previste dai trattati internazionali sui prigionieri di guerra e sulla tortura. Gli esperti dell’Amministrazione hanno elaborato una propria, e più ristretta, definizione di tortura solo di recente abbandonata dopo l’approvazione di un emendamento presentato dal senatore repubblicano John McCain.
Quasi tutte queste decisioni hanno incontrato il favore dell’opinione pubblica americana, convinta che, per sconfiggere i nemici, qualche limitazione alle libertà civili fosse necessaria. Qui la guerra in Iraq non c’entra, anzi proprio chi è stato contrario all’intervento militare e in alternativa ha suggerito l’uso spregiudicato dell’intelligence si è reso conto che alcune misure estreme potessero essere utili a evitare un altro attacco. Ma è Guantanamo la parola chiave, quella che riesce addirittura a riconciliare la sinistra antagonista e quella riformista, Franca Rame e Massimo D’Alema. Nei giorni seguenti la visita del nostro ministro degli Esteri a Condoleezza Rice, la sinistra radicale ha riconosciuto che finalmente D’Alema aveva fatto una cosa di sinistra andando a Washington con l’esplicita e coraggiosa richiesta di chiudere Guantanamo. Repubblica e gli altri giornali hanno sparato titoloni di prima pagina, come se il nostro ministro fosse andato al dipartimento di stato a sbattere i pugni sul tavolo. Peccato che, nella realtà raccontata da fonti della Farnesina, D’Alema abbia impiegato meno di un minuto del suo colloquio con la Rice all’intero dossier diritti & lotta al terrorismo che, oltre a Guantanamo, comprendeva anche il caso giudiziario della morte di Nicola Calipari e il rapimento di Abu Omar.
Il problema di Guantanamo è che quasi nessuno di coloro che criticano le condizioni di vita in quel carcere sa di che cosa parla o c’è mai stato, compresi i giuristi dell’Onu che ne hanno chiesto la chiusura o i dirigenti delle organizzazioni umanitarie che lo paragonano ai gulag sovietici (ma poi ammettono di averlo fatto soltanto per andare in tv). Basti solo un esempio: non c’è articolo sui giornali o servizio sulle televisioni che non sia corredato da grafici o da immagini di celle all’aperto circondate da reti che fanno sembrare i detenuti in tuta arancione di Guantanamo dei polli in batteria. Eppure quella struttura non esiste da più di tre anni. Era il campo provvisorio messo su quando il Pentagono decise di portare lì, in quella base extraterritoriale, i soggetti giudicati più pericolosi. Il Campo X-Ray non esiste più ed è coperto da sterpaglia. E’ stato sostituito da Camp Delta, un supercarcere high tech costruito con l’investimento di parecchi milioni di dollari. Il capo dell’antiterrorismo belga, Alan Grignard, in visita per conto dell’Osce a Guantanamo, ha detto che a Camp Delta i detenuti sono trattati meglio che nelle carceri del suo paese, pur segnalando che detenere persone per molti anni senza formulare un’accusa è essa stessa “una tortura mentale”. Ma, ha detto Grignard, “a livello di struttura detentiva, Guantanamo è una prigione modello, dove le persone sono trattate meglio che nelle carceri belghe”. L’esperto dell’Osce ha spiegato che i detenuti hanno il diritto di praticare la propria religione e poi cibo, indumenti e assistenza sanitaria sono migliori che nelle carceri europee. Vari giornalisti europei, del Guardian come del Daily Telegraph, hanno visitato il carcere e il giudizio è stato unanime: è una terra di nessuno dal punto di vista legale, ma le condizioni di vita sono paragonabili ai migliori carceri d’America. I detenuti sono divisi in tre categorie. Quelli che accettano le regole di Guantanamo e non creano problemi sono ospitati in celle con aria condizionata, con gabinetto e lavandino. Sono vestiti di marrone, hanno in dotazione il Corano, l’occorrente per l’igiene personale e giocano a scacchi o backgammon. In ogni cella è indicata la direzione della Mecca, hanno due ore di esercizio fisico al giorno e possono scegliere i tre pasti da un menu che include gelati, biscotti e burro di arachidi. A loro disposizione c’è una fornita biblioteca e un ospedale di altissimo livello che ai prigionieri ha curato le ferite di guerra e molte altre malattie. La seconda categoria è quella dei detenuti che collaborano con i servizi segreti americani. Indossano tute bianche, vivono e pranzano in strutture comuni, giocano a calcio e a pallacanestro. Poi ci sono i non obbedienti, la terza categoria, cioè gli irriducibili di al Qaida pronti a sacrificare la propria vita per uccidere gli infedeli. Sono vestiti con le tute arancioni, vivono in isolamento in celle minimaliste di colore bianco (come quella fotografata in basso), hanno lo stretto necessario e usufruiscono di tre mezze ore di esercizio fisico a settimana. Sono poco più di un centinaio. Nei mesi scorsi hanno fatto scioperi della fame a oltranza che hanno costretto il personale medico ad alimentarli a forza. Una misura che gli esperti dell’Onu hanno giudicato in violazione delle regole internazionali.
I tentativi di suicidio, ristretti a questa categoria di irriducibili, sono stati una quarantina. Poche settimane fa tre sono riusciti. Il caso degli abusi sul Corano, rivelato nel 2005 da Newsweek e che ha provocato proteste e morti nel mondo arabo, si è rivelato un falso. Si è scoperto che era stato un detenuto islamico a gettare il libro nel water allo scopo di scatenare una rivolta tra i detenuti. Gli abusi sul Corano denunciati dai prigionieri sono stati 5, alcuni dei quali involontari. Le guardie sono state licenziate o punite. Il rapporto Onu su Guantanamo cita questi cinque casi, denuncia torture commesse in Yemen da yemeniti e riporta che tre ex detenuti si sono lamentati di essere stati interrogati in seguito a privazione del sonno, isolamento prolungato, alla presenza di cani ed esposti a temperature estreme.
Dal giorno dell’apertura di Guantanamo a oggi sono stati rilasciati 250 prigionieri. Almeno 12 sono tornati a combattere, compreso un afghano a cui a Guantanamo era stato impiantato un arto artificiale. Rilasciare i detenuti che non sono più pericolosi non è così semplice. In alcuni casi il paese d’origine è un sostenitore del jihad e non c’è la certezza che una volta riconsegnato gli venga impedito di tornare a uccidere. Spesso nei paesi d’origine si pratica la tortura e ogni volta che Washington ha liberato qualcuno che non fosse inglese o francese, le organizzazioni dei diritti umani hanno criticato la scelta. Il paradosso è che parecchi detenuti cinesi, dello Yemen, dell’Uzbekistan e dell’Algeria, secondo la Associated Press, hanno chiesto di non essere rimpatriati per paura di essere colà torturati o uccisi.
Il Partito democratico non propone di chiudere Guantanamo. Un anno fa lo aveva chiesto il senatore Richard Durbin, ma da quel momento non fa altro che scusarsi. Sono tutti consapevoli che Camp Delta e la mancanza di status giuridico dei suoi ospiti non siano il massimo della vita, ma finché qualcuno non proporrà un’idea migliore o non si riuscirà a sconfiggere il jihad internazionale, il supercarcere avrà poche possibilità di essere chiuso.

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