New York. A poco più di un mese dalle elezioni di metà mandato, è ricominciata la battaglia dei “leaks”, delle soffiate ai giornali da parte di ambienti della Cia per colpire la Casa Bianca di George W. Bush e favorire i suoi avversari. E’ una storia che va avanti da quattro anni, sempre uguale a se stessa, con i soliti settori della Cia a rappresentare l’unica e più efficace opposizione a Bush. Questa volta fonti anonime di Langley si sono affrettate a smentire la morte di Osama bin Laden, una notizia fornita dai servizi francesi che, se confermata, avrebbe aiutato il partito del presidente alle elezioni del 7 novembre. Subito dopo, altre fonti anonime della Cia hanno passato al New York Times un paio di righe contenute in un documento classificato su cui c’è ancora il segreto di stato: il National Intelligence Estimate 2006 che raccoglie l’analisi, cioè l’opinione politica, delle 16 agenzie spionistiche statunitensi a proposito delle minacce terroristiche all’America. Secondo queste fonti anonime, il documento delegittima la politica irachena di Bush e accerta che l’invasione ha peggiorato la minaccia terroristica globale. Va notato che si tratta dello stesso documento che, nel 2002, scommetteva sulla presenza di armi di distruzione di massa in Iraq e giurava sulla capacità irachena di costruirsi l’atomica entro dieci anni.
La soffiata si è diffusa sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, con spazio maggiore su quelli europei piuttosto che su quelli americani. Eppure il direttore dei servizi segreti John Negroponte, cioè il responsabile e il titolare del documento in questione, ha detto che le conclusioni dell’Estimate non sono affatto queste, anche perché giudicare la valutazione globale dei trend terroristici da una singola frase tratta da un documento di 30 pagine distorce il senso del testo. L’analisi intanto non è ancora terminata e a oggi non è ancora pubblica, quindi né la Casa Bianca né il direttore dei servizi segreti possono svelarne il contenuto. Negroponte si è limitato ad assicurare che fin qui l’esito dell’Estimate è coerente con le cose dette da Bush in questi mesi. Il succo, nelle parole di Negroponte, è questo: “C’è ancora molto da fare nella guerra al terrore, ma abbiamo ottenuto notevoli successi contro la minaccia jihadista globale”. Negroponte ha ricordato che il documento riconosce che al Qaida oggi è una minaccia di gran lunga minore rispetto al 2001 e che gli Stati Uniti hanno guidato parecchie operazioni internazionali che sono servite a bloccare azioni terroristiche. Sulla questione irachena, il coordinatore dei servizi americani ha detto che il National Intelligence Estimate “evidenzia l’importanza del risultato in Iraq sul futuro del jihadismo globale, perché sostiene che se il popolo iracheno dovesse riuscire a creare sicurezza e un ambiente politico stabile, i jihadisti si accorgerebbero di aver fallito e lascerebbero il paese meno determinati a combattere altrove”.
Questa parte del documento dice l’esatto opposto di quello che si è letto sui giornali, anche perché giudica sbagliata ogni ipotesi di disimpegno da Baghdad. Soprattutto tiene conto del fatto che, accanto al cresciuto numero di jihadisti, lo specifico effetto del cambio di regime in Iraq e in Afghanistan è stato quello di far emergere – per la prima volta in medio oriente – una classe di arabi e musulmani moderati, ieri in galera o in esilio, oggi al potere a Baghdad e a Kabul. Sono loro che si battono contro il jihad, si arruolano nell’esercito e sfidano la realtà terroristica. Il ragionamento è condiviso dal presidente iracheno Jalal Talabani, membro della stessa Internazionale socialista dove siedono i Ds italiani. In un’intervista pubblicata ieri dal Washington Post, Talabani ha detto che “l’Iraq non è nel caos”. Le tre province del nord hanno uno standard di vita tra i migliori del medio oriente e, in questi giorni, sulle tv americane vanno in onda spot in cui gli iracheni ringraziano il presidente Bush per averli liberati da Saddam e invitano a investire nella regione. Talabani ha raccontato che gli americani si sono già ritirati da altre sette province dell’Iraq, lasciando il comando al nuovo esercito democratico iracheno (che ora guida anche la provincia di Dhi Qar, dove comandavano gli italiani). Entro la fine dell’anno i vertici iracheni sperano di poter controllare militarmente dodici province. I problemi di sicurezza sono circoscritti alla zona di Baghdad e a cinque province su 18. Ma anche su questo fronte ci sono novità positive. Il New York Times ha svelato che il premier iracheno al Maliki ha raggiunto un accordo con 25 delle 31 tribù della provincia di Anbar, al confine con Siria, Giordania e Arabia Saudita, per combattere contro i terroristi stranieri e i nostalgici di Saddam. Mentre a Baghdad si è tenuta una conferenza per la riconciliazione nazionale con 1.500 persone.
Commissioni di segno opposto al Congresso
A Washington, però, la guerra di intelligence si è intensificata. La stagione era cominciata male per i sostenitori di quella che è stata definita “una delle più riuscite azioni coperte della Cia per rimuovere un governo nemico”, ovvero il Ciagate che avrebbe dovuto far crollare la presidenza Bush. L’ipotesi di complotto per svelare l’identità dell’agente Valerie Plame si è frantumata alla notizia che era stato un avversario della guerra ad aver fatto il nome ai giornalisti. L’attenzione è stata tenuta viva dalla commissione sui Servizi del Senato, che ha pubblicato un rapporto dove, fidandosi della parola di Saddam, si dice che l’Iraq non aveva rapporti con al Qaida. L’analoga commissione della Camera, guidata dal repubblicano Pete Hoekstra, sforna invece report di segno opposto. Si è in attesa del rapporto della task force bipartisan sull’Iraq guidata da James Baker, l’iper realista sodale di Bush senior. Le inevitabili soffiate raccontano già che le proposte saranno due: ritiro graduale delle truppe e colloqui con Iran e Siria. Si continuerà così fino alle elezioni, con i democratici però consapevoli che, se questa volta riusciranno a conquistare la maggioranza al Congresso, in vista delle presidenziali del 2008 non sarà più sufficiente criticare la strategia antiterrorismo di Bush. Sarà necessario averne una.
26 Settembre 2006