Camillo di Christian RoccaBreve ricordo personale di Oriana Fallaci

La mattina in cui Oriana Fallaci mi ha chiamato a casa ho subito pensato a uno scherzo. Sapevo che non parlava con nessuno, che non vedeva nessuno, che non consentiva a nessuno di invadere il suo spazio. Era vero, anzi verissimo. Ma era vero anche il contrario. Una volta che ti faceva entrare nella sua brownstone bianca sull’Upper East Side ti sentivi come a casa tua, provvisoriamente ospite di un mito. Un anno prima dell’11 settembre mi ero imbattuto nei suoi libri e nelle sue fantastiche interviste, naturalmente snobbati dall’élite del nostro paese. Non mi capacitavo del fatto che per un decennio ci fossimo dimenticati di lei, della nostra più grande giornalista e scrittrice. O, forse, sapevo benissimo per quale motivo le venivano preferiti altri mostri sacri, anche se sconosciuti oltre Chiasso. Qui in America hanno inventato un termine per definire il suo stile personale di raccontare le storie, “it’s-all-about-me-journalism”. Ed era questa la chiave del suo successo, la sua ricetta per far entrare il lettore nel racconto e non farlo più staccare dalle sue pagine. Avreste dovuto vederla mentre scriveva, anzi mentre componeva. Scandiva le frasi seguendo una sua metrica, quasi cantava. E se il suono delle parole non le piaceva, zac, tagliava, ricominciava e non si fermava fino a quando non aveva trovato il ritmo giusto. Oriana era tosta, dura, difficile, ma sapeva essere anche molto gentile. Era una grande cuoca, stupefacente (“cosa credeva, che fossi una di quelle giornaliste in carriera?”). Soprattutto era una persona geniale. Non le sfuggiva nulla. Intuiva al volo le cose e capiva dove sarebbero andate a parare, malgrado ormai la malattia l’avesse sfiancata. “Lo scriva, Christian, mi faccia il favore di scriverlo quando muoio”, mi ripeteva ogni volta che l’accusavano e non si accorgevano che stavano parlando di una persona che non era lei. Scrivo questo, allora: il grande dispiacere della sua vita è stato quello di non aver mai avuto un figlio, quel figlio mai nato a cui aveva indirizzato la famosa lettera. L’aveva tenuto in grembo per alcuni mesi e poi l’aveva sepolto sotto l’altare della cappella di famiglia. Lo andava a trovare spesso, lo chiamava “il mio bambino”.

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