New York. Mancano trentanove giorni alle elezioni di metà mandato che porteranno al rinnovo della Camera dei Rappresentanti di Washington e di un terzo del Senato federale. Se si votasse oggi il Partito democratico conquisterebbe d’un soffio la Camera e guadagnerebbe qualche seggio al Senato senza però riuscire a ottenere la maggioranza. Si tratterebbe certamente di una sconfitta per George W. Bush, ma neanche tanto pesante in un sistema presidenziale che affida alla Casa Bianca i pieni poteri esecutivi e di politica estera e al Congresso quelli legislativi, di controllo e di spesa. Tra l’altro non sarebbe nemmeno una novità, anzi gli americani amano avere un Congresso guidato da una maggioranza opposta a quella del partito della Casa Bianca. E’ stato così con Reagan, con Bush senior e con Clinton. L’eccezione semmai è proprio Bush junior, la cui straordinaria macchina organizzativa fin qui non solo non ha mai perso una elezione, ma ha sempre guadagnato posizioni sia nel 2000 sia nel 2002 sia nel 2004.
“Un mese fa per il Partito repubblicano le aspettative erano peggiori – dice Charlie Cook, il più autorevole analista di flussi elettorali del paese, nonché curatore del Cook Report – Nell’ultimo mese Bush e il suo partito sono riusciti a invertire la rotta, la domanda che ci poniamo tutti è se questa risalita continuerà oppure si fermerà”. I democratici, in vantaggio grazie all’Iraq e alla fisiologica disaffezione nei confronti di chi è al potere da molto tempo, cominciano a preoccuparsi e a temere l’ormai consolidata regola Bush: sempre indietro nei sondaggi, tranne nella settimana del voto.
I motivi per cui i conservatori sono riusciti a risalire nei sondaggi sono tre: la riduzione del prezzo della benzina (62 centesimi in due mesi), l’uccisione di al Zarqawi in Iraq e la rinnovata attenzione sulla sicurezza nazionale grazie agli arresti di Londra di questa estate e al quinto anniversario dell’11 settembre opportunamente sfruttato da Bush per ricordare agli americani la reale minaccia posta dagli islamofascisti.
Oggi i repubblicani hanno una maggioranza di 15 seggi alla Camera (232 a 203) e di 5 al Senato (55 a 45): perché i due rami del Congresso cambino leadership è necessario che i democratici riescano a strappare altrettanti collegi ai repubblicani. Il sistema americano però si basa sui collegi, per cui non è detto che un dato nazionale favorevole a un partito si traduca automaticamente in seggi al Congresso, specie in un quadro politico che favorisce molto gli “incumbent”, cioè i deputati e i senatori in carica grazie alla loro maggiore visibilità e capacità di attirare finanziamenti elettorali.
L’eterno ritorno di Newt Gingrich
Alla Camera, su 435 seggi sono poco meno di quaranta quelli che davvero potrebbero passare da un partito all’altro. La partita si gioca soltanto in questi distretti, in maggioranza occupati da repubblicani. Cook crede che i democratici non perderanno nemmeno uno dei propri deputati uscenti, quindi la battaglia per la conquista della Camera si restringe a una trentina di collegi repubblicani. Tradotto in cifre, vuol dire che i democratici, per tornare a guidare il Congresso perso nel 1994 dalla rivoluzione conservatrice di Newt Gingrich, dovranno conquistarne più della metà, da quindici in su. Oggi, secondo Cook, i democratici sarebbero in grado di aggiudicarsene 15, 16 o 17, mentre un mese fa erano 17, 18 o 19. Nella migliore delle ipotesi odierne, dunque, i democratici guiderebbero la Camera con soli tre voti di scarto, nella peggiore con uno soltanto.
Al Senato le possibilità sono ancora più esigue per i democratici. I senatori sono 100, un terzo dei quali viene eletto ogni due anni con un mandato di sei anni. Il 7 novembre, quindi, saranno 33 i seggi da rinnovare. Profilo, gradimento e statura nazionale favoriscono i senatori uscenti rispetto ai poco conosciuti sfidanti, per cui anche in questo caso i seggi davvero in discussione si riducono a dodici, otto repubblicani, quattro democratici. I democratici devono tenere i propri tre e strapparne sei su otto ai repubblicani. Oggi è probabile che ne vincano quattro, invece dei cinque di un mese fa.
Cook spiega che “se Bush riuscirà a tenere alta l’attenzione sul terrorismo recupererà ulteriore terreno, mentre se i democratici riusciranno a ricordare al paese la situazione in Iraq il cambio di maggioranza alla Camera sarà più facile, e magari anche al Senato”. E’ più probabile che le prossime settimane saranno monopolizzate da entrambi i temi, per cui sarà davvero difficile prevedere il risultato.
Ci sono altri due elementi che potrebbero cambiare il corso attuale: i finanziamenti elettorali e le tecniche per aumentare il numero di votanti, queste ultime fondamentali in un paese con scarsa affluenza alle urne. Il Grand Old Party ha raccolto più soldi dei democratici, ma la differenza non è mai stata bassa come questa volta. I democratici difficilmente riusciranno a ripetere la straordinaria (anche se perdente) campagna di mobilitazione del 2004, anche perché questa volta non ci sono i soldi dei miliardari alla George Soros a finanziare gli sforzi per convincere gli astenuti ad andare a votare. Il sistema repubblicano è più raffinato e oliato, anche perché si basa su volontari (non su militanti a pagamento) e su un formidabile database che, in base ai consumi effettuati con la carta di credito, individua i possibili elettori repubblicani concentrando su di loro l’opera di convinzione nelle ultime 72 ore.
I senatori repubblicani con più probabilità di perdere il seggio sono Conrad Burns (Montana), Rick Santorum (Pennsylvania), Lincoln Chafee (Rhode Island) e Mike DeWine (Ohio), il primo per i suoi legami con il principe dei lobbysti Jack Abramoff oggi sotto inchiesta, il cattolicissimo Santorum per la sua tenace difesa di Bush in uno stato vinto da Kerry nel 2004 e da Gore nel 2000, mentre i due quasi liberal Chafee e DeWine (Chafee alle elezioni del 2004 ha votato per Kerry) anche perché non amati dalla base repubblicana in stati notoriamente democratici o divisi a metà. Gli altri seggi a rischio sono quello di Jim Talent (Missouri), John Kyl in Arizona, quello del Tennessee lasciato libero dal leader repubblicano Bill Frist e, infine, il seggio della Virginia che, a causa di una lunga serie di gaffe, il beniamino del partito George Allen potrebbe perdere a favore di Jim Webb, l’ex ministro della marina militare di Reagan. I democratici rischiano seriamente soltanto in New Jersey (un po’ meno in Michigan, in Maryland e nello stato di Washington) a causa degli scandali di corruzione che hanno coinvolto il senatore Bob Menendez. C’è, infine, il caso del Connecticut, stato liberal, dove Joe Lieberman, il senatore democratico ed ex candidato vicepresidente di Al Gore, è stato sconfitto alle primarie da Ned Lamont, un miliardario diventato beniamino della sinistra radicale per la sua opposizione alla guerra in Iraq. Lieberman si candida da indipendente e, secondo Cook, quasi certamente vincerà le elezioni: “Il motivo è semplice, in Connecticut vincono sempre i democratici, ma anche il meno dotato dei repubblicani ottiene sempre tra il 35 e il 40 per cento dei voti. In questo caso, invece, il candidato repubblicano è accreditato di un 3 o 4, in un caso 8, per cento dei voti. I voti conservatori andranno a Lieberman che vincerà di 2, 3 o 4 punti di scarto”. Lieberman, anche se eletto da indipendente, rimarrà nel caucus, nel gruppo, democratico.
Si voterà anche per qualche governatore: Schwarzenegger sarà confermato in California, mentre New York e Massachussetts – dopo i lunghi regni di George Pataki e Mitt Romney – torneranno ai democratici.
29 Settembre 2006