New York. La squadra italiana in trasferta all’Onu non conta soltanto il premier Romano Prodi e il ministro Massimo D’Alema, ma anche l’intraprendente sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti. Il senatore della Margherita non è nuovo a rappresentare le solide posizioni atlantiche e filo-israeliane di quell’ala riformista del governo spesso schiacciata dalla mediazione dalemiana con la sinistra antagonista. A seguire l’agenda politico-diplomatica newyorchese di Vernetti si nota una differenza di approccio alle questioni internazionali rispetto ai suoi più alti in grado. Ieri pomeriggio, per esempio, mentre Romano Prodi incontrava all’Onu il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, Vernetti partecipava di fronte al Palazzo di Vetro alla manifestazione anti Ahmadinejad insieme con l’opposizione iraniana e i gruppi pro Israele guidati dal premio Nobel Elie Wiesel. Mentre Prodi invocava e praticava il dialogo con il negatore dell’Olocausto, Vernetti e i manifestanti chiedevano l’applicazione dello statuto dell’Onu e la conseguente espulsione dell’Iran dal consesso delle Nazioni Unite. Martedì sera, infine, mentre Romano Prodi partecipava a Chelsea a un elegante party dell’Ulivo Usa, Vernetti si trovava alla Columbia University a seguire un dibattito sul futuro del Partito democratico, quello vero, cioè quello americano, con il saggista Paul Berman, l’ex direttore di New Republic Peter Beinart e monsignor Lorenzo Albacete.
Alla caffetteria delle Nazioni Unite, seduto a un tavolo con vista sull’East River, Vernetti ha raccontato al Foglio le ragioni d’ufficio della sua missione newyorchese: una serie di incontri bilaterali con i ministri degli Esteri dell’Afghanistan, del Kazakistan e dell’Indonesia, la ricerca di consenso intorno a una risoluzione contro la pena di morte e, soprattutto, la riunione della Comunità delle democrazie. “L’Italia – dice Vernetti – ha ottenuto la presidenza della task force che ha il compito di suggerire idee per trasformare l’attuale Community di paesi democratici in un’organizzazione internazionale vera e propria. Al meeting di ieri ho proposto un modello organizzativo leggero, tipo Osce, finalizzato all’istituzione di una Organizzazione mondiale delle democrazie, magari con sede a Roma”. Vernetti spiega che questo è il tema centrale del nostro tempo, specie dopo l’11 settembre, e non gli importa che le sue parole sembrino quelle pronunciate proprio all’Onu da George W. Bush: “La democrazia e i diritti devono diventare il punto cruciale delle relazioni tra stati. La mia idea è che l’azione politica e diplomatica sia comunque da preferire al realismo e al mantenimento dello status quo. Quell’equilibrio è saltato. Io capisco l’atteggiamento prudente dei realisti, talvolta anche quello degli iperrealisti, ma non fino ad accettare l’appeasement. Non dobbiamo dimenticare che non viviamo più nell’Europa degli anni Sessanta, che non c’è più la politica estera andreottiana e nemmeno l’illusione della fine della storia secondo il modello di Fukuyama. L’idea che si possa fare a meno di democrazia e diritti, ottenendo in cambio la stabilità politica, è un reperto del passato, spazzato via dall’11 settembre. Quel modo di pensare non è più possibile”.
Traducendo questi concetti in azioni politiche, si finisce appunto con Vernetti in piazza contro Ahmadinejad ma anche pronto a marcare un’ulteriore differenza rispetto all’auspicio prodiano di togliere l’embargo militare alla Cina: “In tutti i miei incontri con i rappresentanti del governo di Pechino ho fatto puntuali richieste su libertà religiosa e di stampa e ho chiesto l’eliminazione della pena di morte per quella quarantina di reati non di sangue per cui è prevista”.
Detto questo, secondo Vernetti, “non bisogna avere paura della Cina, né pensare di adottare sciocche misure protezioniste alla Tremonti. Via libera al mercato, purché queste concessioni non siano gratuite: noi ci apriamo agli scambi commerciali, ma voi ci date qualcosa in termini di diritti”.
L’Italia deve e può svolgere un ruolo di potenza regionale nel Mediterraneo e in Medio Oriente, da qui la nascita della missione militare in Libano che è “un successo di Massimo D’Alema e del governo”, malgrado le complicazioni dovute alle regole d’ingaggio dell’Onu. Vernetti nota anche l’abilità dalemiana di aver compiuto scelte in piena sintonia con il Dipartimento di stato americano e il governo israeliano e, contemporaneamente, di averle fatte accettare con entusiasmo dalla sinistra antagonista italiana.
Sulla guerra al terrorismo combattuta dagli Stati Uniti, Vernetti dice che Washington la sta combattendo compiendo evidenti “grossolanità”, ma questo non vuol dire che si debba abbandonare la battaglia. Al contrario bisogna aumentare gli sforzi, perché “c’è una parte del mondo islamico che cerca lo scontro di civiltà e a costoro dobbiamo rispondere promuovendo un sistema di valori condivisi, fondato sulla democrazia e sui diritti”. Vernetti non critica l’incontro Prodi-Ahmadinejad, anzi crede che “si debba parlare con chiunque”, purché “si facciano valere con forza i nostri principi”. Allo stesso tempo avverte una diffusa “sottovalutazione della portata rivoluzionaria del regime islamico d’Iran”, malgrado Teheran, abbia “un preciso disegno volto allo scontro di civiltà, a cancellare Israele, a guidare l’islamismo fondamentalista, a esportare terrorismo, a finanziare Hamas e anche Hezbollah, cioè la causa vera del conflitto libanese dove ora saranno impegnati i nostri soldati”.
Chi non vede queste cose, spiega il sottosegretario, non è necessariamente mosso da intenti negativi: “Spesso questo atteggiamento nasce da buoni auspici che però rischiano di annebbiare la vista, come ha dimostrato la famosa ‘mancanza di immaginazione’ che l’11 settembre ha colto impreparata l’America”. Sull’Iran, Vernetti ricorda che “è scaduto l’ultimatum, e anche i tempi supplementari. Con le date non si scherza, ora siamo a un passo dall’adozione seria e graduale di sanzioni politiche ed economiche”.
21 Settembre 2006