New York. Portatevi i fazzoletti, alla prima di “Borat”, alla Festa del cinema di Roma. Riderete fino alle lacrime. Non credo sia possibile, in natura, far ridere così tanto in soli 82 minuti. Il film uscirà regolarmente nei cinema americani a novembre, ma ho visto “Borat – Cultural Learnings of America for Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan” a una proiezione speciale all’interno del Festival del New Yorker di Manhattan. Era sabato scorso. La sala era sold out da tempo, malgrado il costo del biglietto (20 dollari) e l’orario decisamente bizzarro (mezzanotte e mezzo). Fuori dal cinema, la fila dei fan di Borat girava intorno all’isolato sulla 57esima. All’ingresso sono stati requisiti i telefonini dotati di videocamera, per evitare di rimpinguare l’archivio di clip su Borat già disponibile su YouTube. In sala, nell’esatto momento in cui si sono abbassate le luci, s’è sentito un boato d’eccitazione. Poi è cominciato il film. Le prime risate sono arrivate dopo circa 15 secondi, già sui titoli di testa in stile tardo sovietico. Poi si è cominciato a ridere a crepapelle a intervalli regolari di 20 secondi. Spesso sono seguiti applausi a scena aperta, meno frequenti solo per il timore di perdersi la battuta successiva. Alla fine del film, non essendomi portato un fazzoletto, avevo gli occhiali appannati e la camicia bagnata di lacrime.
I lettori del Foglio sanno già tutto di Borat e del suo straordinario interprete, il comico inglese Sacha Baron Cohen, noto soprattutto nei panni di Ali G. La storia è questa: Borat Sagdiyev è un giornalista della televisione kazaca in visita a New York per girare un documentario sulla cultura americana. Dopo aver visto una puntata di Baywatch, si innamora di Pamela Anderson e intraprende un viaggio on the road verso la California per rapire la biondona e portarsela in Kazakistan a scopo matrimonio. Il tutto a beneficio del glorioso popolo kazaco, anche se glorioso, questo Kazakistan non pare. Borat lo racconta come un paese arretrato, misogino e antisemita, tanto che nella realtà il governo kazaco ha protestato ufficialmente.
All’inizio del film, Borat bacia con passione erotica una ragazza bionda, poi la presenta: “Questa è mia sorella, la seconda più importante prostituta del paese”. Lei alza la coppa. Seguono gli incontri con lo stupratore del villaggio, una specie di eroe, e poi con il fratello ritardato, con la mucca in salotto più varie altre amenità come, per esempio, “la corsa dell’ebreo”, ispirata alla festa di san Firmin di Pamplona con i kazachi che scappano eccitati, terrorizzati e inseguiti da due ebrei. Le battute sugli ebrei sono moltissime, anche parecchio forti e raggelanti. L’Anti Defamation League ha protestato, ma Baron Cohen è ebreo, cresciuto da ortodosso e la sua fidanzata, l’attrice australiana Isla Fisher (vista in “Due single a nozze”) s’è appena convertita all’ebraismo per poterlo sposare.
Poi c’è la partenza per gli Stati Uniti, insieme con il fidato produttore Azamat. I due kazachi, completamente nudi, a metà del film sono protagonisti di una lunga scena (che non racconto) di rara efficacia comica. Abituato al Kazakistan, e catapultato tra le mille luci di Manhattan, Borat perde la testa (in particolare davanti alle vetrine di Victoria’s Secret). Intervista persone, politici, esperti di comportamento per provare a capire la cultura americana. Gli interlocutori non sanno che Borat è un comico, credono davvero di rispondere alle assurde domande di un giornalista kazaco. L’incontro con un gruppo di femministe newyorchesi, la cena con un predicatore del sud e la performance a un rodeo in West Virginia sono le gag più riuscite. Immaginatevi Peter Sellers che fa “Candid camera”. Poi preparate i fazzoletti.

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