Camillo di Christian RoccaBushiani in difficoltà, ma i liberal vanno forte se fanno i bushiani

New York. A meno di un mese dalle elezioni di metà mandato del 7 novembre, i numeri sono sempre meno rassicuranti per il Partito repubblicano del presidente George W. Bush, ma se letti con attenzione promettono poco anche per i democratici. I sondaggi prevedono un forte arretramento dei conservatori sia alla Camera sia al Senato, una tendenza rafforzata dallo scandalo omosessuale che ha coinvolto il deputato della Florida Mark Foley. Il sexgate ovviamente non sposta voti conservatori sul fronte democratico, ma potrebbe convincere una parte della Right Nation, già delusa da alcune politiche bushiane, a non andare a votare, un fattore decisivo in un paese dove l’affluenza alle urne è molto bassa.
In generale sembra che gli anni di Bush abbiano eroso la natura “fusionista” della coalizione conservatrice nata negli anni 60 con Barry Goldwater e portata al potere negli anni 80 da Ronald Reagan e, poi, da Newt Gingrich. La Right Nation americana è il frutto di un’alleanza strategica, per certi versi innaturale, tra i conservatori tradizional-religiosi e i libertari classici, uniti originariamente dal collante anticomunista ovvero dalla comune opposizione all’ideologia che minacciava sia i valori religiosi sia le libertà capitaliste. Successivamente è stato l’anticlintonismo a rimettere in piedi l’alleanza, mentre l’unità post 11 settembre e la minaccia fondamentalista hanno coperto la delusione dei paleoconservatori per una politica estera impostata su una tradizione culturale liberal – a cominciare dai tentativi di “nation building” in medio oriente – e quella dei libertari per aver aumentato la spesa pubblica e fatto crescere il peso dello stato federale. L’alleanza ha tenuto perché Bush ha dato ai tradizionalisti garanzie sulle questioni etiche oltre che giudici non impegnati a interpretare la Costituzione, mentre ai libertari ha concesso il taglio delle tasse anche in un periodo di guerra. La minaccia islamista ha fatto il resto per cementare l’alleanza. Alle elezioni di metà mandato le speranze della coalizione conservatrice si giocano sulla capacità di rimobilitare gli elettori intorno al pericolo terrorista e alla prospettiva di un Congresso guidato dai democratici, i quali parlano già – anche se non ufficialmente – di aumentare le tasse e di tagliare i finanziamenti agli interventi in medio oriente.
Gli esempi di Harold Ford e Joe Lieberman
Gli scandali di corruzione e ora sessuali, i troppi anni al potere, i problemi in Afghanistan e in Iraq, il disastro di Katrina, la guerra sotterranea scatenata dalla Cia contro la Casa Bianca e la grancassa dei giornali e delle televisioni liberal sono i motivi per cui è molto probabile che la Camera torni a maggioranza democratica. L’opposizione ha bisogno di strappare 15 seggi ai repubblicani e oggi le previsioni dicono che la vittoria democratica sarà tra i 7 e i 30 seggi. Più difficile il cambio al Senato, dove ai democratici serve conquistare sei senatori sugli otto seggi repubblicani in bilico. I sondaggi parlano di quattro o sei possibili vittorie democratiche e la differenza non è da poco, perché nel primo caso il Senato resterebbe in mano ai repubblicani, nel secondo ci sarebbe il cambio di maggioranza. Ma questi dati, pur favorevoli, promettono poco di buono per le chance del Partito democratico di spostare l’asse politico americano a sinistra e quindi di riconquistare nel 2008 la Casa Bianca.
E’ sufficiente osservare i candidati e le campagne elettorali nei singoli stati per accorgersene. I repubblicani più in difficoltà, con l’eccezione dell’ipercattolico Rick Santorum, sono i senatori più centristi: Mike DeWine in Ohio e Lincoln Chafee del Rhode Island, quest’ultimo alle scorse elezioni ha addirittura votato per John Kerry e non per George W. Bush. Lo stesso Santorum perderà il seggio più per aver lasciato la Pennsylvania che per essere troppo religioso. Il suo avversario, infatti, è Bob Casey junior, cattolico, contrarissimo all’aborto e figlio di quel governatore democratico a cui il partito, nel 1992, aveva impedito di parlare “a favore della vita” alla convention di Filadelfia. Quattordici anni dopo è cambiato il Partito democratico, piuttosto che essersi spostato a sinistra il paese per colpa di Bush. La stessa cosa accade in Virginia, dove il senatore repubblicano George Allen rischia contro il democratico James Webb. Definire Webb “democratico” è anch’esso un segnale della vittoria culturale dei conservatori, visto che Webb è un conservatore ed ex ministro della Marina militare di Reagan. L’altro caso eclatante è quello del Tennessee, dove il leader repubblicano al Senato Bill Frist ha lasciato vacante il suo seggio. Il candidato democratico è Harold Ford, trentaseienne, brillante e capace deputato nero che nel 2000 aveva pronunciato il keynote speech alla convention del partito (come Barack Obama due anni fa). Ford non fa mistero di essere amico di Bush (“mi chiama Fordie…”), di amare Gesù, di frequentare molto la chiesa, di essere contrario al matrimonio gay, di aver votato la guerra in Iraq, il Patriot Act e tutte le misure antiterrorismo possibili, anzi di aver proposto di concedere più poteri a Bush per vincere la guerra.
Infine c’è il Connecticut, dove la rivolta anti Iraq aveva convinto i democratici a sconfiggere il senatore Joe Lieberman alle primarie del partito di agosto. Lieberman si è candidato da indipendente e oggi i sondaggi lo vedono avanti di 20 punti sul democratico Ned Lamont. Qualora i democratici riuscissero a vincere i sei seggi necessari per conquistare il Senato, dovrebbero subire la beffa di dover tornare a corteggiare proprio il seggio indipendente vinto da Lieberman, l’amico di Bush.

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