Camillo di Christian RoccaLa strategia di Bush per

New York. Mancano diciotto giorni alle elezioni americane di metà mandato del 7 novembre. I sondaggi sono unanimi: il Partito democratico conquisterà di misura la Camera e ha buone possibilità di strappare ai Repubblicani quei sei seggi necessari per ottenere la maggioranza di un solo voto al Senato. I grandi giornali liberal raccontano da giorni l’imminente valanga democratica, alimentata da una lunga serie di piccoli scandali di ogni natura, dalle grandi difficoltà irachene, da continue rivelazioni e da un generale sentimento di stanchezza nei confronti del consolidato sistema di potere repubblicano. I leader e i commentatori conservatori ammettono le altissime probabilità di sconfitta, cominciano a mugugnare e a cercare un capro espiatorio cui addossare la colpa.
In questo scenario apparentemente così chiaro soltanto due persone dicono che dopo il 7 novembre il Senato e la Camera saranno ancora guidati dal Partito repubblicano: il presidente George W. Bush e il suo consigliere politico Karl Rove. Ovviamente Bush e Rove sono in piena campagna elettorale e non potrebbero dire altrimenti, ma negli ultimi due giorni ci sono state delle novità. Giovedì sera, a un comizio in Pennsylvania, Bush ha attaccato duramente e personalmente i democratici, invitando gli elettori a riflettere sulle posizioni politiche prese dai leader del partito d’opposizione sulle questioni della sicurezza nazionale. I democratici hanno votato in gran parte contro il Patriot Act, contro il sistema di sorveglianza dei terroristi, contro il programma di interrogatori della Cia, addirittura contro l’istituzione del Dipartimento sulla sicurezza nazionale e ora vogliono scappare dall’Iraq. Il messaggio era chiaro ed esplicito: “Se seguissimo le ricette dei Democratici e ci ritirassimo dall’Iraq, realizzeremmo i più grandi desideri di Osama bin Laden. Ci possono essere legittimi disaccordi sul modo migliore di vincere questa guerra, e ci sono, ma dovremmo almeno essere in grado di concordare sul fatto che il cammino verso la vittoria non è fare esattamente ciò che vogliono i terroristi”.
(segue dalla prima pagina) Nelle prossime due settimane Bush proverà a convincere gli americani dell’importanza del voto del 7 novembre proprio rispetto alla guerra al terrorismo, anche se in realtà, comunque vada a finire, sarà sempre lui a condurre la politica estera e di sicurezza. Il presidente è partito all’attacco, definendo i democratici come il partito che non si cura di proteggere il paese e che facilita i progetti dei terroristi. Facilitano il suo compito la confusione e alcune pazzotiche dichiarazioni dei principali leader liberal, come Nancy Pelosi e Charles Rangel. In caso di vittoria, Pelosi diventerà speaker della Camera, sicché Bush ha ricordato che secondo lei la cattura di Bin Laden non renderebbe più sicura l’America. Rangel, invece, ha detto che se diventerà presidente della potente Commissione Ways and Means bloccherà i fondi ai militari impegnati in Iraq.
Bush punta anche sul fatto che i Democratici non hanno una linea comune: “C’è soltanto una posizione nel Partito democratico che tutti sembrano condividere: se in questi giorni vuoi essere un Democratico, puoi sostenere qualsiasi cosa, ma la vittoria in Iraq non è tra queste”. Karl Rove ha detto al Washington Post che quando si prova a nazionalizzare una campagna elettorale, come stanno facendo i democratici nei singoli collegi, si deve anche avere un messaggio coerente: “Non sono sicuro che ce l’abbiano. C’è unanimità sull’Iraq? Credo di no”. L’ottimismo elettorale di Rove è riposto su due elementi: il vantaggio finanziario (“spenderemo 100 milioni di dollari da qui al voto”) e quello organizzativo. La macchina repubblicana, guidata da Ken Mehlman, è nota per la sua formidabile capacità di mobilitare gli elettori nelle ultime 72 ore, oggetto di gigantesca invidia democratica. Al partito giurano che i militanti stanno facendo meglio che nel 2004. Oggi è l’unica, vera speranza di Bush.

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