Camillo di Christian RoccaState of Denial, quello vero

New York. L’ultimissima è questa: Ted Koppel, giornalista televisivo americano, ha proposto sul New York Times di ieri la geniale idea di lasciare che l’Iran si costruisca la sua bella bomba atomica, però con l’avvertenza che se qualcuno dovesse davvero usarla, “magari facendola esplodere a Milwaukee, Baltimora, Wichita oppure in Israele, Egitto o Arabia Saudita”, allora sì che ci arrabbieremmo davvero con Teheran e gliela faremmo pagare sul serio. Sono fatti così, i negatori dell’evidenza jihadista. Credono che stragi, bombe, kamikaze, omicidi, intimidazioni, rapimenti, teste tagliate, missili katiuscia, fatwe religiose, proposte di cancellazione di Israele e quant’altro siano “dirty tricks”, sporchi trucchi di George W. Bush per vincere le elezioni e consolidare l’egemonia imperiale americana. Due giorni fa, sempre sul New York Times, lo storico Robert Harris ha raccontato l’istruttiva favola secondo cui l’Impero romano, l’unico nella storia paragonabile agli attuali Stati Uniti, abbia cominciato a scricchiolare proprio a causa della guerra al terrore scatenata da Pompeo contro quei pirati del Mediterraneo – “una specie di al Qaida” – che nel 68 avanti Cristo avevano attaccato il porto di Ostia, distrutto la città e rapito due senatori. In quell’occasione Pompeo ottenne dal Senato poteri speciali, una specie di Patriot Act dell’epoca, a causa dei quali è iniziato il declino della civiltà giuridica romana. Il Times ha titolato così: “Che cosa ci può insegnare un incidente terroristico nell’antica Roma”. La lezione è chiara: andare a prenderli usando le maniere forti è controproducente e distruggerà le nostre libertà. E’ appena uscito il nuovo libro anti Bush di Bob Woodward, il cronista del Watergate che negli ultimi tre anni ha tenuto nascosta un’informazione sul Ciagate che avrebbe evitato l’inutile processo ai consiglieri della Casa Bianca che, tra le altre cose, ha compromesso la capacità dell’Amministrazione di concentrarsi sulla minaccia jihadista. Il libro si intitola “State of denial”, stato del diniego, e racconta come la Casa Bianca continui a negare l’evidenza dei propri fallimenti in Iraq. In realtà chi vive in questo “stato di diniego” non pare Bush, né Tony Blair, ma chi di qua e di là dell’Atlantico non vuole accettare la realtò che qualcuno ci abbia dichiarato guerra e che la stia combattendo. Koppel, Harris e il New York Times non sono gli unici a vivere nello stato di diniego. Un paio di mesi fa, la rivista Atlantic Monthly invitava a dichiarare vinta la guerra al terrorismo e poi a occuparsi d’altro, idea condivisa dall’editorialista libertario del Times, John Tierney. Il finanziere George Soros crede che sia dannoso combattere la guerra al terrorismo, e lo spiega grazie al suo ultimo libro e ai suoi ultimi miliardi. Il Council on Foreign Relations, cioè il salotto buono della politica estera americana, invita a cena Mahmoud Ahmadinejad e poi si stupisce che il soggetto invece di accettare un “grande affare” impartisca lezioni per contestare la veridicità dell’Olocausto, peraltro innanzi a un anziano superstite di Dachau. La rivista Foreign Affairs, edita dal medesimo Council, nel numero di settembre/ottobre si chiede se ci sia ancora una minaccia terroristica e parla di “mito del nemico onnipresente”. L’autore, il professor John Mueller, scrive cose di questo tipo: “Va ricordato che il totale delle persone uccise da al Qaida o simili dall’11 settembre a oggi, fuori dall’Afghanistan e dall’Iraq, non è molto superiore al numero di chi ogni anno negli Stati Uniti annega nella propria vasca da bagno”. Il dibattito surreale A vivere nello stato di diniego ci sono anche parecchi italiani, senza per questo includervi gli imbecilli che propagandano la spazzatura nota come teoria del complotto. Ci sono persone serie come Sergio Romano che non credono che le stragi dell’11 settembre siano state quel fatto epocale che giustifica la mobilitazione militare e ideologica dell’occidente. Barbara Spinelli scrive che bisogna riconoscere che l’occidente ha perso le tre guerre post 11 settembre, ma è lei stessa – come Soros – a non riconoscere la validità del concetto di guerra al terrorismo. Piero Ottone, sul Venerdì di Repubblica, scrive che “il danno materiale che il terrorismo è in grado di infliggere è pur sempre minimo”. I magistrati arrestano i capi dei servizi segreti impegnati in operazioni antiterrorismo, i giudici assolvono i reclutatori dei kamikaze e rinviano a giudizio Oriana Fallaci. Massimo D’Alema passeggia a braccetto con Hezbollah, Romano Prodi e Pierferdi Casini incontrano unilateralmente Ahmadinejad. Il dibattito è surreale: la guerra non si fa, ma non vanno bene nemmeno i processi ordinari, né i poteri speciali, né le azioni coperte dell’intelligence. Tutto ciò accade mentre la tv mostra i terroristi dell’11 settembre che se la ridono.