Camillo di Christian RoccaLa Right Nation tiene, ma è divisa. Bush va nella sua tana per convincerla

New York. Oggi è il giorno delle elezioni di metà mandato con cui, ogni due anni, gli americani rinnovano la Camera e un terzo del Senato di Washington. Gli stessi sondaggi che per mesi hanno preannunciato una solida vittoria del Partito democratico alla Camera e un avanzamento al Senato alla vigilia delle ultime 72 ore hanno cominciato a segnalare una leggera inversione di tendenza. Secondo l’istituto Pew, il margine nazionale tra i due partiti ora è sceso a 47 per cento contro 43, mentre due settimane fa era 50 a 39. Altre rilevazioni segnalano un guadagno del Partito repubblicano di otto punti (Abc-Washington Post), di sette punti (Gallup), di cinque punti (Fox News). Lo stratega della campagna elettorale democratica, il deputato clintoniano Rahm Emanuel, ha detto al New York Times che “questa cosa” dei nuovi sondaggi “mi sta facendo diventare nervoso”. I leader repubblicani sembrano aver ritrovato il sorriso, credono che sul recupero abbia influito la gaffe di John Kerry contro i militari, sperano che la ripresa possa essere consolidata dalla notizia della sentenza Saddam e puntano, come sempre, sul programma di mobilitazione delle ultime 72 ore, cioè sulla loro macchina organizzativa per portare alle urne il maggior numero possibile di elettori. Gli opinionisti conservatori sono invece molto più scettici dei vertici del partito, a cominciare dallo staff del Weekly Standard e dai principali columnist dei grandi giornali. Nessuno pare convinto che i repubblicani possano tenere la maggioranza, salvo al Senato. Sondaggi a parte, le indicazioni principali delle difficoltà repubblicane sono due: la gran parte dei seggi a rischio è repubblicana e la campagna di Bush dell’ultima settimana si è concentrata negli stati conservatori dove nel 2004 ha vinto con 10 o 25 punti di scarto.
Questo ciclo elettorale è stato dominato dal tentativo, riuscito, dei democratici di nazionalizzare la campagna di mid-term, puntandola sulle inefficienze dell’Amministrazione Bush nella gestione dell’Iraq e di Katrina. C’è anche la fisiologica stanchezza nei confronti di un partito al potere da troppi anni che, peraltro, nel 1994 aveva vinto proprio per fare piazza pulita di lobbisti e affaristi, non per diventare il nuovo centro catalizzatore. I democratici sono stati svegli a candidare, nei collegi chiave, ex repubblicani, conservatori di ogni tipo, uomini di fede, veterani dell’Iraq orgogliosi di esserlo, ex ministri di Reagan e, addirittura, in Pennsylvania, un neocon come Chris Carney, cioè l’uomo che al Pentagono ha lavorato con Douglas Feith alla preparazione della guerra in Iraq e ai piani postbellici.
Guai per la coalizione reaganiana
La campagna elettorale ha confermato che l’America resta una Right Nation, anche se scricchiola la coalizione conservatrice reaganiana, cioè l’alleanza tra la destra religiosa e i libertari che negli ultimi vent’anni ha dominato l’agenda politica del paese. La colpa è di Bush, dicono i suoi critici di destra. Ma non tanto, o non solo, per l’Iraq – che semmai è la realizzazione di una politica estera di tradizione liberal. I libertari di destra credono che Bush abbia incrementato troppo la spesa pubblica, aumentato l’ingerenza dello stato e dato troppo seguito alle politiche religiose. Gli evangelici pensano il contrario, cioè che Bush abbia fatto poco o niente per loro. I due gruppi hanno cominciato a guardarsi in cagnesco e il tentativo di Bush di mediare non ha funzionato, con il risultato che la base della rivoluzione conservatrice reaganiana oggi pare divisa, delusa e rassegnata.
Sul fronte della politica estera c’è l’establishment del partito favorevole a trovare una via d’uscita dal caos iracheno, mentre i neoconservatori – per la verità da più di tre anni – criticano l’atteggiamento soft della Casa Bianca sia in Iraq sia riguardo all’Iran.
Il mensile Vanity Fair, trasformato da Graydon Carter nell’organo della resistenza radical chic al bushismo, ha provato a mettere zizzania in questo mondo, preannunciando il pentimento iracheno di esponenti neocon in un articolo non ancora uscito, anzi non ancora scritto, di un giornalista inglese pro war. Ciascuno di loro ha smentito di essersi pentito (David Frum a pagina due), denunciando la scorrettezza di Vanity Fair, ma confermando in toto le critiche all’Amministrazione. Malgrado ciò, la battaglia per il Congresso resta aperta. Sembra impossibile che i democratici perdano le elezioni, ma se non vincono nemmeno questa volta, dovrebbero pensare, come ha suggerito George Will, a “cambiare linea di business”.
(previsioni del Weekly Standard nell’inserto II)

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