Qualche mese fa questa rubrica consigliò a Massimo D’Alema di leggersi un bel libro di Peter Beinart, un giovane saggista americano di sinistra liberale. “The Good Fight” ricorda ai liberal d’oltreoceano che la battaglia, anche armata, contro i totalitarismi del vecchio e del nuovo secolo è prerogativa della storia e della tradizione del partito democratico, sicché a suo giudizo la nuova sfida dell’islamismo radicale e terrorista può essere sconfitta soltanto dalla sinistra. Il nostro ministro degli Esteri ha affrontato di petto la questione che fa discutere il mondo dall’11 settembre 2001 e ha portato l’Italia ad assumere un ruolo di primo piano in Medio Oriente, oltre che di mediatore tra Stati Uniti e Europa. Bravo D’Alema, dunque, sebbene come al solito ecceda in mosse tattiche e manchi di visione strategica. Quale sia, infatti, la strategia dalemiana per liberarci dal jihadismo musulmano non è dato sapere. Spesso D’Alema sembra non individuare in pieno la pericolosità dell’offensiva guerrasantiera, almeno quando passeggia per le strade di Beirut a braccetto di un esponente di un movimento fascista oppure quando sottovaluta la natura rivoluzionaria del regime islamico iraniano o suggerisce a Israele di difendersi un ciccinin di meno. Altre volte è così ciccì-coccò con gli americani (dai bombardamenti su Belgrado ai “bye, bye Condi”), da far impallidire Silvio Berlusconi e i suoi coca-cola boys.
L’atteggiamento di D’Alema riflette la contraddizione della sinistra liberale mondiale, sempre a metà strada tra la difesa del nostro modello di civiltà e il tentativo di comprendere le ragioni di chi ci vuole tagliare la testa. Il modello americano di D’Alema, in questo caso, è doppio: Joe Lieberman e Ned Lamont. Il primo è l’attuale senatore del Connecticut, il più combattivo tra i Democratici consapevoli che la priorità è sconfiggere il Jihad globale. Questa estate, alle primarie per la riconferma al Senato, Lieberman è stato battuto da Lamont, un miliardario contrarissimo agli interventi in Medio Oriente. La sinistra pacifista ha esultato, ora che è riuscita a impartire una lezione ai compagni che osano considerare Saddam un pericolo maggiore di Bush. Malgrado la sconfitta alle primarie, Lieberman non si è arreso e il 7 novembre si candiderà da indipendente. La politica di Lamont piace ai duri e puri, mentre Lieberman sembra più popolare tra gli elettori comuni. Se – come dicono oggi i sondaggi –¬ riuscisse a vincere Lieberman, il nostro D’Alema dovrebbe ricordarsi che una cosa sono le vittorie tattiche, un’altra i successi strategici.
1 Novembre 2006