Milano. C’è un caso interessante, culturalmente e politicamente, ed è quello delle pagine degli editoriali e delle opinioni del Wall Street Journal. Non c’è altro giornale al mondo – parlando dei grandi organi di informazione globale – che dopo l’11 settembre sia stato così convinto, severo e rigoroso nel sostenere le ragioni della dottrina dell’allargamento democratico elaborata da George W. Bush. Alla base di questa posizione c’è l’idea, fondamentale per un quotidiano di analisi finanziarie pubblicato e letto in tutto il mondo, che l’economia si sviluppi e cresca ove c’è un’espansione della libertà, un’idea peraltro che sta alla base della costituzione editoriale di un altro gioiello dell’informazione economica mondiale, l’Economist di Londra. Ma a differenza del settimanale britannico, per non parlare del più politicamente corretto Financial Times, gli editoriali del giornale di Wall Street non hanno mai ondeggiato, nemmeno per un attimo, sulla dottrina Bush e nemmeno su Guantanamo o sulla necessità di adottare procedure di interrogatorio più rigide nei confronti dei nemici combattenti. “La spiegazione è semplice – dice al Foglio il direttore delle op-ed pages, Paul Gigot – noi eravamo a favore della dottrina Bush ben prima di Bush”. La diffusione della libertà e la liberazione dei popoli è nel Dna di questo giornale, insieme con l’antikeynesismo e l’idea di ridurre le tasse per far volare l’economia. Le pagine del Journal non hanno omesso critiche a Bush, a cominciare dalla gestione e dall’esecuzione della guerra irachena. Gigot ha ospitato opinioni contrarie alla guerra, compreso il più influente articolo anti Iraqi Freedom comparso sui giornali d’America, quello di Brent Scowcroft che, da destra, ha provato a convincere Bush a non rimuovere Saddam. “Però è vero – conferma Gigot – nei nostri editoriali abbiamo sempre sostenuto la dottrina Bush”, probabilmente ancora più del presidente, vista la difesa di Donald Rumsfeld e la critica alla Casa Bianca per la decisione di sostituirlo. Anche l’edizione europea, guidata da Matthew Kaminski, è su questa linea e senza tentennamenti, tanto da essere stata nel 2003 l’artefice della famosa “lettera degli 8”, e poi della dichiarazione di Vilnus, in cui per la prima volta la maggioranza dei paesi europei, compresa l’Italia, si è schierata con gli Stati Uniti e contro Francia e Germania.
La domanda è: come mai? Quali sono le ragioni di questa solida linea culturale, giornalistica e politica, ribadita ancora ieri in un editoriale a proposito dell’irrealistica idea di poter venire a patti col nemico siriano? In fondo da un giornale economico di proprietà della Dow Jones – cioè di una società di analisi e di informazione finanziaria intimamente legata al mercato azionario e agli interessi speciali di Wall Street – ci si aspetterebbe una certa dose di cinismo, di moderazione, di flessibilità, esattamente quella che si legge sui due giornali economici della City londinese, il Financial Times e l’Economist. E magari anche una particolare attenzione alle tesi dell’establishment conservatore di Washington. Invece no, le pagine degli editoriali del Journal sono state sempre e comunque schierate con i principi dell’espansione della democrazia, peraltro in aperto contrasto con il resto del giornale che, secondo una ricerca del 2004 condotta dall’Università del Missouri e della California, è considerato il quotidiano più liberal d’America. Le due sezioni (“la Corea del sud e la Corea del nord”) sono separate, secondo tradizione editoriale americana, ma con una differenza ulteriore rispetto a quanto accade al New York Times o al Washington Post. Al contrario dei Sulzberger che gesticono direttamente la pagina degli editoriali del Times, la famiglia proprietaria della Dow Jones preferisce restare dietro le quinte e affidarsi al management per le questioni finanziarie e ai “newsmen” per la conduzione giornalistica. Il più longevo dei direttori delle op-ed pages, Bob Bartley, ha detto di aver ricevuto una sola telefonata dalla proprietà in trent’anni di direzione.
(continua nell’Inserto II)
(segue dalla prima pagina) Qualcuno potrebbe liquidare la questione pensando che le pagine degli editoriali del Wall Street Journal non siano altro che il megafono della propaganda di destra, un’accusa peraltro già avanzata da Harry Truman quando sopportava le critiche alla sua politica sull’acciaio (“siete la Bibbia dei repubblicani”). Eppure è Truman stesso a spiegare che non è così, come dimostra il sostegno alla dottrina che porta il suo nome, cioè a una politica estera interventista e di forte opposizione all’espansionismo sovietico. I primi editorialisti del Journal erano grandi sostenitori del bastonatore del business selvaggio Theodore Roosevelt, per esempio. Mentre più recentemente non hanno avuto dubbi ad appoggiare gli interventi balcanici del presidente Bill Clinton, praticamente da soli a destra, insieme con i neoconservatori. “Queste pagine non sono mai state isolazioniste anzi si sono spesso trovate in disaccordo con la destra alla Pat Buchanan”, ricorda il direttore europeo Kaminski. Quando John Kennedy ringraziò personalmente il capo di allora, Vermont Royster, per gli editoriali favorevoli alle sue politiche liberiste, Royster gli rispose: “Giovanotto, sosteniamo il libero commercio da prima ancora che lei nascesse”.
“La gente dirà che siamo conservatori o reazionari – ha scritto nel 1951 il direttore William Grimes, per spiegare la filosofia delle pagine dei commenti – In realtà non siamo interessati alle definizioni, ma se dovessimo sceglierne una diremmo che siamo radicali”. Paul Gigot conferma: “Se parliamo di promozione della libertà siamo certamente radicali, ma non in quanto estremisti, piuttosto nel senso etimologico, perché andiamo alla radice della tradizione americana”.
Gigot e Kaminski ripetono al Foglio, come un mantra, il principio editoriale e filosofico intorno al quale sono state fondate queste pagine e su cui si basa l’attuale convinzione priva di esitazioni a favore della dottrina Bush, del liberismo economico e dell’apertura delle frontiere agli immigrati: “Siamo uniti dal principio del libero mercato e dei popoli liberi”. Questi principi, in teoria, sembrano scontati, ma la loro applicazione alle questioni di attualità spesso risulta difficile, controversa o fuori moda. Nelle op-ed pages del Journal, invece, questi principi sono sempre di gran moda e senza far ricorso ai “da un lato così e dall’altro cosà”, perché – come ha scritto Grimes – “non pretendiamo di venire incontro a metà strada, i nostri commenti e le nostre interpretazioni nascono da un preciso punto di vista: crediamo nell’individuo, nella sua saggezza e nella sua rispettabilità, ci opponiamo a tutte le violazioni dei diritti individuali”. L’altro elemento alla base di queste pagine, continua il loro curatore Paul Gigot, è “l’idea che il potere e il ruolo americano nel mondo siano una fonte di bene per gli altri”. Kaminski insiste a dire che a stupire non è affatto l’attuale difesa, priva di incertezze, della dottrina Bush, ma la straordinaria coerenza degli editoriali di questi anni con il principio ispiratore stabilito nel 1889 dai fondatori del giornale, Charles Dow e Edward Jones. Su queste pagine si sono lette le più feroci accuse alla “détente” kissingeriana nei confronti dell’Unione Sovietica, così come le critiche a Bush senior per aver invitato gli ucraini a non ribellarsi ai sovietici e a James Baker per aver liquidato i massacri bosniaci con un cinico “non c’è un nostro cane in quella gara”. La filosofia del Journal non si può leggere con la stantia distinzione tra realisti e idealisti: “E’ ovvio che ci voglia un bilanciamento tra le due correnti”, ci dice Gigot. “Noi siamo favorevoli alla promozione della democrazia, ma sappiamo anche che non si può trasformare il mondo in poco tempo. Siamo realisti, ma un po’ di idealismo – democrazia e libertà – ci deve essere nella politica americana, viceversa non saremmo l’America, ma la Francia”.
24 Novembre 2006