Il sito Asianews.it ieri ha pubblicato due fotografie di un monaco buddista assassinato dalle forze di sicurezza della giunta militare che governa la Birmania da 45 anni. Sono immagini atroci, scattate di nascosto in un obitorio, che mostrano la barbarie umana che si accanisce sul viso e sulla testa di un uomo di religione, nonviolento e colpevole soltanto di chiedere libertà e democrazia. L’atto di coraggio di migliaia di monaci e di cittadini comuni contro la dittatura militare è stato ormai sedato col sangue. Ufficialmente i morti e gli arrestati sono quattromila, ma varie fonti indipendenti sostengono che i dati siano ben più grandi.
La comunità internazionale e l’opinione pubblica mondiale, dopo la partecipata mobilitazione dei primi giorni, sono tornate ad occuparsi d’altro. Il Segretario generale dell’Onu ha “deplorato” l’uso della violenza contro i pacifici dimostranti democratici e, con l’inviato Ibrahim Gambari, è impegnato in una serie di incontri con i militari birmani e con i cinesi che non sembrano però portare a nulla. Gli unici ad agire, come al solito, sono gli americani. George W. Bush, e ancora prima di lui sua moglie Laura, hanno annunciato fin dal primo giorno della repressione una serie di iniziative, sanzioni contro il regime e sostegni ai gruppi umanitari, “per aiutare a portare un cambiamento pacifico in Birmania”. La Cina, invece, continua a guardare dall’altra parte, come fa già in Darfur. S’è opposta a una risoluzione Onu di condanna del regime di Rangoon e non sembra particolarmente disposta a compromettere gli affari per due miliardi di dollari annui con la Birmania, compresa la partnership per la fornitura delle armi.
Uno spiraglio però c’è, probabilmente l’unico a disposizione della comunità internazionale per fare pressioni sulla Cina e, quindi, sulla Birmania: le Olimpiadi di Pechino del prossimo anno. I comunisti cinesi, ha scritto il Washington Post, si sono accorti che una delle conseguenze inaspettate delle Olimpiadi è una maggiore attenzione globale alla loro retrograda politica estera. Prima di Pechino 2008, il pilastro della politica estera cinese è stato quello di fare affari con “gli stati canaglia” con cui il resto del mondo non voleva avere contatti, dalla Corea al Sudan, dallo Zimbabwe alla Birmania. Ora, con l’incombente minaccia internazionale di rovinare le sue Olimpiadi col boicottaggio degli atleti, Pechino sembra più recettiva. Ecco, per non dimenticare i monaci massacrati, sarebbe il caso di usarla questa minaccia.
27 Ottobre 2007