Camillo di Christian RoccaLa fine degli evangelici. Sì, un'altra volta

Il New York Times ha dichiarato finita l’era politica del movimento evangelico con un lunghissimo articolo del suo reporter addetto al mondo conservatore e alla destra religiosa, David Kirkpatrick. L’autore è lo stesso che nel 2004 aveva seguito per il Times l’incontenibile ascesa dei fondamentalisti religiosi e la loro presa di potere del Partito repubblicano. Almeno, così si diceva allora. Ora, con la stessa naturalezza, si dice l’opposto: “La straordinaria storia d’amore degli evangelici con Bush è finita in modo straziante a causa della guerra in Iraq e per quello che molti di loro vedono come un insufficiente risultato di politica interna. Questa delusione ha affilato la divisione nel mondo evangelico, in particolar modo sugli approcci teologici e generazionali a proposito dell’alleanza col Partito repubblicano”.
La notizia della morte del movimento politico evangelico sembra decisamente esagerata, proprio come l’idea che Bush e la destra religiosa stessero instaurando una teocrazia cristiana grazie a una politica estera ideologica e a una interna ispirata al Vangelo. “L’intera cosa del collasso evangelico è una stupidaggine, facilmente ignorabile se non fosse che alcuni di noi non possono fare a meno di divertirsi a tenere ancora conto del Times – ha scritto il cattolico Richard John Neuhaus, direttore della rivista First Things –  Prima hanno spaventato i lettori creando lo spauracchio di un monolitico assalto teocratico e ora si autoconsolano dicendo che le forze nemiche sono state disperse, ma sia il monolite sia il collasso sono proiezioni della loro eccitata immaginazione”.
Quando il Times e altri giornali liberal raccontavano di questo movimento politico evangelico compatto e coeso dietro George W. Bush, e di una Casa Bianca occupata manu militari dalla destra religiosa, in realtà non tenevano conto delle continue lamentele di leader cristianisti nei confronti del presidente, accusato di strumentalizzare gli evangelici e di prendersi gioco di loro. L’anno scorso, per esempio, era uscito il libro di David Kuo, il numero due dal 2001 al 2003 all’Office of Faith-Based Initiatives della Casa Bianca, la centrale operativa delle iniziative bushiane ispirate dalla religione. In “Tempting Faith”, Kuo ha raccontato che, al di là delle parole, l’Amministrazione Bush non ha fatto nulla per gli evangelici, che li ha soltanto sfruttati per cinici motivi elettorali, dopo essersi accorto che nel 2000 quattro milioni e mezzo di fedeli erano rimasti a casa e non erano andati a votare per lui nella sfida con Al Gore. Non solo. Kuo ha scritto che lo stratega di Bush, Karl Rove, era solito descrivere gli evangelici come “matti” e “stupidi”. Insomma era sufficiente ascoltare i leader religiosi per capire, già allora, quanto la “minaccia teocratica” fosse inesistente e come l’influenza delle istituzioni religiose sulla politica americana fosse inferiore a quella di altri gruppi di pressione.
Improvvisamente anche per il New York Times quel pericolo teocratico non c’è più e, anzi, pare che in un battibaleno gli evangelici siano cambiati, siano diventati più buoni e sostengano i democratici. L’analisi di David Kirkpatrick, consolidata dalle dichiarazioni di alcuni leader evangelici, è che il movimento si sia stancato della guerra culturale su aborto e gay ed embrioni e che, grazie all’avvento di nuovi e più moderni leader, si voglia dedicare a sconfiggere la povertà nel mondo, ad ampliare la copertura sanitaria in America, a combattere le malattie infettive, a curare l’ambiente e a prevenire i genocidi. Temi che, al contrario dell’aborto, consentono alla sinistra di competere con la destra.
Eppure è il Partito democratico a essere più attento alle questioni religiose. Le iniziative della “religious left” sono sempre più frequenti, il Congresso democratico aumenta i fondi per promuovere l’astinenza sessuale, i centri studi liberal invitano a intercettare il voto evangelico, i candidati democratici parlano di Dio e di religione, Hillary Clinton ha organizzato un formidabile apparato per rispondere alle esigenze degli elettori devoti, Barack Obama si è fatto rappresentare da un predicatore furiosamente anti gay. Sicché è possibile che Bush abbia spento l’entusiasmo degli evangelici e che qualcuno di loro non sia più interessato alla battaglia elettorale, ma forse anche perché reputa già vinta la battaglia culturale.
Il rapporto tra gli evangelici e la grande stampa liberal non è mai stato semplice, i due mondi non comunicano e non si capiscono. Qualche anno fa il Washington Post  definì gli evangelici “poveri, non istruiti e facilmente manipolabili”, ma quando negli anni Settanta è cominciata l’ultima ondata di partecipazione politica attiva degli evangelici, il movimento si è schierato con Jimmy Carter, il primo presidente cristiano rinato.
Da allora sono state parecchie le volte in cui i leader evangelici, delusi dal rapporto con Washington, hanno invocato il ritiro dalla politica attiva. Oggi sono evidenti le divisioni spirituali, i conflitti generazionali e il declino dei vecchi leader politici della Jesus Machine, ma non al punto da poter annunciare la fine del peso degli evangelici. I capi della destra religiosa minacciano di non votare Rudy Giuliani o John McCain o Mitt Romney, ma lo stesso fatto che nei sondaggi questi continuino ad avere il sostegno dei repubblicani, non sembra un segno del collasso del ruolo politico della destra religiosa, ma la prova che il mondo liberal confonde le posizioni estreme di alcuni personaggi a loro paradossalmente cari, come Pat Robertson e James Dobson, con il diffuso e sereno sentimento religioso della comunità di fede.
Il New York Times sostiene che il consenso repubblicano per un pluridivorziato, abortista e pro gay come Giuliani dimostri l’estinzione del sacro fuoco della destra religiosa. Altri osservatori, come il professore liberal della New York University Jeff Sharlet, credono che ci sia un’altra spiegazione, tutt’altro che moderata. Per buona parte del Ventesimo secolo, ha scritto Sharlet, gli evangelici hanno avuto un nemico chiaro ed evidente: il comunismo. La fine della Guerra fredda ha spazzato via l’avversario, lasciando spazio al loro altro grande tema, quello della purezza sessuale. L’11 settembre ha introdotto nello scenario un nuovo nemico, il fascismo islamico, facilmente assimilabile all’antica avversione nei confronti dell’ideologia comunista. In questi anni il movimento evangelico è stato indeciso su dove concentrare le proprie energie, se nella battaglia contro il sesso o nello scontro di civiltà, tanto che l’anno scorso è stato convocato un incontro con mille predicatori per dibattere la questione. Sharlet, così, arriva a una conclusione opposta a quella del New York Times, cioè che il successo di Giuliani non significa la fine della destra religiosa, piuttosto che gli evangelici potrebbero aver raggiunto un consenso in quel dibattito: il nemico è l’islam radicale e Giuliani è l’uomo che può vincere questa battaglia, esattamente come negli anni Ottanta è stato l’attore hollywoodiano Ronald Reagan, noto per aver firmato la legge sull’aborto più permissiva d’America ai tempi in cui governava la California, ad aver entusiasmato gli evangelici e preso i loro voti per sconfiggere l’impero del male sovietico.
    Christian Rocca

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