di Christian Rocca
Tutti vogliono sapere se Hillary Clinton ce la farà a diventare presidente degli Stati Uniti e se Rudy Giuliani sarà un avversario davvero temibile per l’ex first lady, ma anche se l’America è pronta per un comandante in capo di colore, cioè per Barack Obama, se la questione mormone costituisce un problema reale per Mitt Romney, se l’attore Fred Thompson saprà ripetere le gesta di Ronald Reagan e se il neopopulista John Edwards e l’indipendente John McCain avranno davvero qualche chance di vincere la nomination dei rispettivi partiti.
Le risposte possibili sono due. La prima, confortata da costanti e coerenti sondaggi degli ultimi mesi, è che sì, Hillary e Giuliani vinceranno le rispettive primarie di gennaio-marzo e poi se la giocheranno alla pari il 4 novembre 2008 alle presidenziali, con un leggero e statisticamente ancora non rilevante vantaggio per la senatrice di New York.
La seconda risposta suggerisce maggiore prudenza e, semmai, indica esattamente il contrario: Hillary e Giuliani portano in dote così tanti fattori negativi da non potere mai diventare presidenti o, addirittura, candidati del proprio partito. Su Hillary, qualche giorno fa, è uscito un sondaggio Zogby sconcertante. Agli americani è stato chiesto chi, tra i 15 candidati presidenziali dei due partiti, non avrebbero mai votato alla Casa Bianca: Hillary è arrivata prima col 50 per cento, seguita col 46 dal bizzarro candidato Dennis Kucinich, uno noto per aver portato alla bancarotta il comune di Cleveland quando era sindaco e che a un recente dibattito presidenziale ha detto in diretta televisiva di aver visto gli Ufo nel giardino della casa di Shirley McLaine.
Rudy, invece, è giudicato irricevibile da una buona parte dei leader conservatori sociali, almeno da quelli che parlano con i grandi giornali liberal, tanto che qualcuno ora minaccia una candidatura indipendente della destra religiosa qualora l’ex sindaco di New York ottenesse la nomination repubblicana. L’analista della politica di Washington, Charlie Cook, autore dell’autorevole The Cook Political Report, ha giudicato impossibile una vittoria di Giuliani alle primarie (“è più facile che io vinca il Tour de France”, ha detto). I giornali, nel frattempo, si sono scatenati su scandali e scandaletti, veri o inventati, a proposito della condanna di un amico di Giuliani o sulla mancia non lasciata da Hillary in un ristorante dell’Iowa. Non mancano, ovviamente, le indiscrezioni pruriginose su amanti, mogli ed ex fidanzati, così come le insinuazioni su loschi affari compiuti in pieno conflitto di interesse. La verità è che entrambi, Hillary e Rudy, contano parecchi nemici nell’establishment, nella propria base e, ovviamente, tra gli avversari.
I conservatori odiano Hillary perché è troppo liberal, ma quando prende posizioni moderate dicono che è falsa, fredda e cinica. I liberal, al contrario, la giudicano troppo conservatrice e non si fidano quando dice qualcosa di sinistra. Lei, a Joe Klein di Time magazine, ha definito così la sua filosofia politica: “Getting the stuff done”, riuscire a fare le cose che si possono fare, sintesi suprema della gloriosa triangolazione clintoniana, cioè di Bill, una realpolitik applicata alla politica interna.
Visto dall’altra parte, Giuliani è lo stesso tipo di candidato, posizionato sulla trincea opposta della stessa guerra culturale cominciata negli anni Sessanta. L’ex sindaco non è sopportato dai liberal per le sue crociate contro la cultura lassista di quegli anni, ma è considerato un liberal da parecchi conservatori per le sue posizioni su aborto, gay, ricerca scientifica, porto d’armi e immigrazione. A differenza di Hillary nessuno può accusare Giuliani di pensarla in modo diverso dalle cose che dice, ma la regola ferrea di Giulianiland è simile a quella in vigore a Hillaryland: fedeltà estrema dei collaboratori – in prevalenza italoamericani per Giuliani, donne per Hillary – e un atteggiamento di chiusura, ai confini dell’arroganza, nei confronti di chiunque non faccia parte del clan.
A fronte di tutto ciò, il loro vantaggio è consistente, malgrado la risalita di Romney e Obama. L’ala pacifista del Partito democratico comincia a farsene una ragione e Charlie Cook si sta allenando moltissimo con la bicicletta.
Hillary sta consolidando la sua immagine di candidata “inevitabile”, malgrado i primissimi scivoloni di una campagna comunque perfetta, e Rudy è riuscito addirittura a ottenere il sostegno del più noto e più conservatore dei telepredicatori della destra religiosa, Pat Robertson. “Sono poche le volte che rimango senza parole, oggi è una di queste”, ha commentato incredulo John McCain alla notizia che il più arrabbiato crociato anti aborto degli anni Ottanta avesse scelto un candidato favorevole al diritto della donna a interrompere la gravidanza.
La scelta di Pat Robertson ha confermato ciò che alcuni osservatori andavano dicendo da tempo, nell’indifferenza della linea politicamente corretta dettata dal New York Times al resto del mondo, e cioè che oggi la destra religiosa considera il pericolo islamofascista una minaccia più urgente e pressante della tragedia dell’aborto. Era successo già ai tempi di Ronald Reagan, quando l’impero del male sovietico era il nemico da abbattere. Allo stesso modo, i grandiosi dubbi liberal su Hillary e il suo centrismo svaniscono quando si confrontano la sua esperienza e le sue capacità col resto della compagnia del Partito democratico. Ed è per queste ragioni che, per ora, i sondaggi sono unanimi.
La media tra tutti i rilevamenti nazionali dell’ultimo mese, fatta dal sito Real Clears Politics, dice che Hillary ha un vantaggio di oltre 23 punti percentuali rispetto a Barack Obama e di 32 nei confronti di John Edwards. Anche la partita della raccolta fondi, la risorsa decisiva per poter pagare i costosi spot televisivi spesso ai danni del concorrente, è vinta da Hillary, sebbene di misura rispetto a Obama. Il vantaggio di Giuliani è più contenuto, del 14 per cento rispetto a Fred Thompson e John McCain, e del 18 sull’ex governatore del Massachusetts Mitt Romney. Sul fronte repubblicano c’è da considerare anche Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas, come Bill Clinton, e nato a Hope, come Bill Clinton. Huckabee è in vivace risalita, è ben visto dai giornali ed è accreditato di un crescente 8,3 per cento di media, con gli ultimi sondaggi che lo danno addirittura all’11 e tra i possibili vincitori in Iowa.
Stando ai numeri, dunque, i giochi sarebbero fatti, Hillary e Giuliani. Senonché di questi tempi è meglio non dare troppa importanza ai sondaggi. Nel novembre 2003, a un anno come oggi dal voto presidenziale, in testa ai sondaggi del partito democratico c’era Howard Dean col 16 per cento e Joe Lieberman col 15. Dean è crollato alla prima apertura delle urne in Iowa, mentre Lieberman di recente è stato costretto a lasciare il partito per le sue posizioni favorevoli alla politica irachena di George W. Bush. E ora, addirittura, il giornalista neoconservatore Bill Kristol lo vorrebbe vicepresidente di qualunque repubblicano vincesse le primarie, con l’eccezione di Giuliani, al quale Kristol suggerisce invece di prendere Lieberman come capo del Pentagono, perché l’ex sindaco ha comunque bisogno di scegliersi un vice antiabortista.
Nel 2003, dietro a Dean e Lieberman c’erano Wesley Clark e Dick Gephardt, mentre l’effettivo vincitore delle primarie, John Kerry, era soltanto sesto con il 9 per cento. Questa distonia tra i sondaggi novembrini e il voto di gennaio-marzo non è una novità, soprattutto sul fronte democratico: nel novembre 1991, Bill Clinton era soltanto sesto col 6 per cento e primo era Mario Cuomo col 33. Nel 1975 Jimmy Carter era all’ultimo posto col 3 per cento, contro il 23 di Ted Kennedy. Gli elettori repubblicani tradizionalmente riservano meno sorprese ai propri leader e nelle urne tendono a confermare il candidato favorito, ma è ancora possibile che i sondaggi di oggi corrispondano all’indice di notorietà dei candidati, più che a un’indicazione di voto.
L’interpretazione dei numeri, dunque, sembra suggerire una certa vulnerabilità di Hillary Clinton e un più solido vantaggio per Rudy Giuliani, ma una terza e ancora più approfondita lettura dei dati suggerisce ancora una volta l’ipotesi opposta. I sondaggi che circolano, infatti, sono nazionali e, letti da soli, non tengono conto del fatto che negli Stati Uniti non c’è un unico “primary day”. Le primarie americane, infatti, si svolgono stato per stato, con regole e, soprattutto, in giorni diversi e lontani gli uni dagli altri.
Prima di avventurarsi in previsioni, dunque, c’è da guardare con attenzione il calendario del voto e vedere come sono piazzati i candidati negli “early states”, cioè nei primi stati che, a partire dal caucus dell’Iowa del 3 gennaio, apriranno le urne. In realtà il calendario del voto non è ancora definitivo, anzi c’è addirittura la possibilità che le primarie del New Hampshire – storicamente le prime di ogni ciclo presidenziale – si terranno a fine dicembre. Non solo. Ci sono i partiti locali di 4 o 5 stati che, malgrado il parere contrario dei Comitati nazionali, si stanno battendo per anticipare le loro primarie a gennaio. Il braccio di ferro è ancora in corso, ma il rischio è che stati come la Florida e il Nevada possano essere sanzionati con la riduzione del numero dei delegati, di fatto modificando strategie elettorali e dinamiche politiche dei candidati. In un modo o nell’altro la giornata chiave sarà quella del 5 febbraio, quando più della metà degli stati avrà chiuso le urne e i giochi dovrebbero essere già fatti. Gli “early states” sono fondamentali perché garantiscono a chi vince la possibilità di cavalcare l’inerzia della vittoria, quella che gli americani chiamano “momentum”, oltre a un enorme spazio gratuito in televisione.
In questo ciclo elettorale del 2008 il calendario è particolarmente importante per i repubblicani. Uno di loro, Mitt Romney, indietro nei sondaggi nazionali, è il favorito sia in Iowa sia in New Hampshire sia in Michigan, per ragioni politiche, geografiche, familiari e strategiche. I repubblicani dell’Iowa sono parecchio conservatori e non vedono di buon occhio l’abortista Giuliani, mentre il New Hampshire è uno stato satellite del Massachusetts, dove Romney è stato governatore. In Michigan, invece, il padre di Romney è stato governatore per sei anni e,nel 1968, anche candidato alle primarie repubblicane sconfitto da Richard Nixon. Romney ha puntato tutto, anche parte della sua fortuna personale, su questi primi stati, spendendo fin dall’inizio dell’anno decine di milioni di dollari in spot televisivi.
Allo stesso tempo, il grande favorito nazionale Giuliani non solo insegue Romney in questi tre stati, ma è pericolosamente tallonato, e in alcuni casi superato, anche da Mike Huckabee e John McCain. E in Carolina del sud, primo stato del sud ad aprire le urne il 19 gennaio, l’ex sindaco è sotto d’un pelo a Mitt Romney e a pari con Fred Thompson. C’è quindi l’ipotesi reale che Giuliani non vinca nessuno dei primi quattro o cinque stati e che punti tutto sulla Florida, dove comunque è avanti di un soffio rispetto a Thompson e Romney, ma soprattutto sul “super tuesday” del 5 febbraio quando voteranno i grandi stati, comprese le sue roccaforti New York, New Jersey, California, Pennsylvania. Nella storia delle primarie, però, non è mai successo che un candidato repubblicano ottenesse la nomination dopo una sconfitta sia in Iowa sia in New Hamsphire sia in Carolina del sud. Giuliani è convinto, al contrario, che la sua strategia nazionale funzionerà, ma negli ultimi giorni ha ripreso a credere nella vittoria già in New Hampshire.
In sintesi. Per ottenere la nomination repubblicana, Romney dovrà certamente vincere i primi tre stati e, grazie a questo, sperare di acquisire prestigio e status per le sfide successive con Giuliani. Thompson non può prescindere dal vincere in Carolina del sud e, perlomeno, da un piazzamento in Florida. In Iowa c’è l’incognita Huckabee e in New Hamsphire quella di McCain a poter spiazzare i giochi, ma se Giuliani dovesse vincere già in New Hampshire e in Carolina del sud il successo finale è quasi certo. C’è anche, però, chi immagina uno scenario apocalittico in cui i tre big repubblicani si dividono i singoli stati e arrivano alla convention dell’agosto 2008 a Minneapolis senza la maggioranza assoluta. A quel punto potrebbero essere i delegati a scegliere il candidato presidenziale e, se nessuno dei tre dovesse fare un passo indietro, il partito dovrebbe individuare un candidato unitario, magari l’ex governatore della Florida Jeb Bush.
Il percorso di Hillary è meno complicato, lei è di gran lunga in testa in tutti gli stati dell’Unione, tranne che in Iowa, dove il margine di vantaggio è impercettibile sia nei confronti di Barack Obama sia di John Edwards. I due sfidanti della senatrice devono quindi fermarla in Iowa, se vogliono continuare a coltivare qualche speranza dopo il 3 gennaio, altrimenti sarà praticamente impossibile sottrarle la nomination. Nelle ultime settimane Obama ed Edwards hanno intensificato gli attacchi all’ex first lady, neanche fossero i suoi avversari repubblicani. Lei ha tentato di giocare la carta degli uomini cattivi che se la prendono con la donna, poi ha capito che non era il caso e ha spiegato che “non mi attaccano perché sono donna, ma mi attaccano perché sto vincendo”. Resta che Obama ed Edwards la dipingono come il candidato dello status quo, dei poteri forti, una versione minore di Bush e Dick Cheney.
Da ultimo comincia a diffondersi un certo imbarazzo tra i deputati democratici eletti nei collegi moderati o conservatori del sud e del midwest, perché a livello locale si prevede già che la candidatura di Hillary radicalizzerà lo scontro per i seggi congressuali, favorendo gli aspiranti deputati del Partito repubblicano. Il nuovo “insight” che circola nei salotti di Washington è proprio questo: Hillary potrà anche vincere la presidenza, ma di certo farà perdere il Congresso. E c’è chi si domanda se i deputati democratici a rischio del seggio non si impegnino già fin d’ora, alle primarie, a sostenere un candidato che non sia Hillary o se, invece, non temano eventuali ritorsioni della potente, affiatata e vendicativa Clinton machine.
Sul fronte opposto, si dice che la presenza di Giuliani sulla scheda elettorale repubblicana convincerà parecchi conservatori sociali a disertare le urne, come accadde nel 2000 quando la destra religiosa non si fidava ancora di George W. Bush. Ma del resto, dicono altri, la candidatura di Hillary riuscirà a ricompattare la Right Nation come nient’altro al mondo. Poi c’è chi scommette che il libertario Ron Paul potrebbe candidarsi da indipendente e arrecare a Giuliani lo stesso danno che nel 2000 Ralph Nader creò ad Al Gore, ma c’è anche chi fa sapere che il sindaco di New York Mike Bloomberg pensa seriamente a una sua discesa in campo a capo di un terzo partito. L’idea di Bloomberg era di investire mezzo miliardo di dollari di patrimonio personale se democratici e repubblicani avessero scelto candidati appartenenti alle ali più estreme dei rispettivi partiti. Il consenso per Hillary e Giuliani, più moderati rispetto alle loro basi, sembrava aver chiuso ogni spazio politico centrista a Bloomberg, ma tra i suoi consiglieri circola voce che il sindaco potrebbe decidere di candidarsi proprio nel caso in cui i due prescelti dai democratici e dai repubblicani fossero Hillary e Giuliani, perché in realtà la sua unica possibilità di vittoria è di giocarsela con due personaggi controversi e, come lui, newyorchesi.
Il punto della questione Hillary e Giuliani è che sono entrambi i candidati più forti del proprio schieramento, ma per certi versi anche i meno amati. La candidatura di Giuliani, per esempio, renderebbe competitivi alcuni stati democratici, come New York, New Jersey, Pennsylvania e California. Non è detto che l’ex sindaco riesca a conquistarli (se ce la fa, la presidenza è sua), ma Hillary o chi per lei dovrà spendere parecchio denaro per difenderli, al contrario di quanto accadrebbe se l’avversario fosse un repubblicano più tradizionalmente conservatore. Hillary, malgrado sia odiata dai conservatori, è anche la più conservatrice tra i democratici, sia sulle questioni di politica estera sia quelle etico-religiose, tanto da essere appena stata scelta come miglior candidata, insieme con il repubblicano Mike Huckabee, nientemeno che da John DiIulio, il guru delle politiche ispirate alla fede della prima Casa Bianca di Bush.
Hillary e Rudy sono, quindi, i veri favoriti, ma non si può per questo sottovalutare già adesso il peso che avranno sugli elettori l’appeal neopopulista di John Edwards o il nuovismo di Barack Obama che promette di porre fine alla guerra culturale iniziata negli anni Sessanta. Tra i repubblicani, Giuliani sa che deve guardarsi dall’efficientismo da businessman di Romney, dall’eroismo e l’indipendenza di pensiero di McCain e dall’aura da pacato gentiluomo del sud che circonda Thompson e che gli consente di dire, unico tra tutti i candidati, che se si vuole salvare il sistema pensionistico, senza aumenti fiscali, dalla bancarotta prevista nel 2014 è necessario tagliare i benefici previdenziali. Insomma, per sapere chi vincerà le primarie, c’è un unico metodo a disposizione: aspettare che si aprano le urne e poi che si contino i voti, probabilmente fino all’ultima scheda.