La fanfara freneticaDino Betti van der Noot, l’Orchestra, i Suoni e l’Universo visti da Milano

        Conosco ed ammiro  Dino Betti van der Noot  da tempo e apprezzo molto chi, come lui,  realizza progetti molto complessi, con orchestre da sogno . Questo già di per sé, in un paese come i...

Conosco ed ammiro Dino Betti van der Noot da tempo e apprezzo molto chi, come lui,
realizza progetti molto complessi, con orchestre da sogno .
Questo già di per sé, in un paese come il nostro, dilaniato da mafie e clientelismi
anche in campo musicale, rappresenta un vero miracolo.
Scopriamo qesto artista e cerchiamo di capire come fa a realizzare la sua “visione”..

1

Chi è Dino Betti van der Noot, da dove viene, che origini familiari ha e che cosa ha studiato.

C’è sempre stata musica, a casa mia. Mia madre era pianista;
un nostro cugino insegnava pianoforte principale al Conservatorio;
la nonna suonava pianoforte, organo e mandolino; il nonno violino, mandolino e chitarra.
C’erano affascinanti serate musicali. Sempre, comunque, di musica classica.

Ho studiato violino, perché i miei avrebbero desiderato che studiassi pianoforte;
e mal me ne incolse, perché sono assolutamente negato per il violino.
Poi, da autodidatta, un po’ di chitarra, di pianoforte, di contrabbasso,
di tromba, di flauto e di saxofono; ma so perfettamente che non potrei mai essere uno strumentista decente.
Durante l’università, in Bocconi, ho cominciato a occuparmi di jazz e ho organizzato un corso di lezioni su questo argomento.

Ho iniziato anche a scrivere qualcosa, cercando una strada che mettesse insieme
l’approccio classico e quello jazzistico, ma né i tempi erano maturi
né io avevo la capacità necessaria per costruire qualcosa di interessante.

Ho scelto di fare il pubblicitario, e probabilmente questo mestiere
ha avuto un’influenza notevole sul mio approccio alla composizione.
Nel senso di una ricerca di chiarezza, di immediatezza, nel rifiuto di linguaggi difficili da capire.

D’altra parte, qualche mio jingle (per esempio il Ba-ba-ba di Bauli)
è rimasto nella memoria collettiva proprio per questa capacità
di essere memorizzato e di emozionare la gente.

2

Il primo suono orchestrale che ti ha fulminato?

Parliamo di jazz: Stan Kenton di sessant’anni fa, ma,
insieme, anche Gerry Mulligan dei quartetti con Chet Baker: due opposti.

Parliamo di classica: suonare il violino per un saggio della Scuola Musicale di Pavia,
nell’orchestra che eseguiva una composizione di Schubert.

Kenton mi affascinava per la sua capacità (grazie a Pete Rugolo e altri arrangiatori)
di ibridare jazz e musica classica in un mix esplosivo, con una sonorità piena,
che sfruttava la big band in tutti i suoi registri.

Mulligan per l’equilibrio perfetto nelle strutture compositive e nell’interplay
fra i diversi strumenti, dove non c’era niente di casuale,
ma questo non andava mai a scapito di una rilassata, emozionante spontaneità.

In quanto a Schubert, quella è stata la mia prima esperienza come orchestrale
e forse mi ha segnato per sempre.

3

Come hai iniziato a scrivere per orchestra?

Ho tentato di scrivere qualcosa (un brano atonale) per la
Pysistratus Orchestra alla fine degli anni ’50, ma i suoi componenti non hanno gradito:
preferivano suonare brani già noti.

Successivamente, alla fine degli anni ’60, ho messo in piedi un’orchestra di dilettanti –
la Cloisters Big Band, diventata poi Basement Big Band – e ho cominciato
a scrivere arrangiamenti di brani esistenti, da Lester Leaps in a Take the A Train, da Intermission Riff a The Preacher.

All’inizio suonavo anche io – il tenore e il flauto – ma a un certo punto
ho trovato qualcuno che mi ha sostituito e l’orchestra ha suonato decisamente meglio.

Ci riunivamo ogni lunedì sera per provare e riprovare, e siamo riusciti perfino a fare qualche concerto
e a incidere un disco: Basement Big Band.

Quando ho iniziato a comporre brani originali, che uscivano dagli stilemi di un certo mainstream,
l’orchestra è andata a catafascio. Probabilmente io non ero capace di trasmettere compiutamente
quello che volevo fare, ma anche i musicisti non erano in grado di uscire da una strada
che conoscevano bene e nella quale potevano adagiarsi.

Per riuscire ad ascoltare quello che avevo scritto, ho riunito a questo punto un gruppo
di professionisti e ho inciso l’album A Midwinter Night’s Dream.

4

Chi è stato il tuo Maestro? Musicalmente che studi hai fatto?

Non ho avuto un Maestro. Come dicevo prima, ho studiato violino
per un po’ di anni alla Scuola Musicale Luigi Vittadini di Pavia.
Poi, privatamente, e su suggerimento di Peo Boneschi, armonia e contrappunto con Centemeri.
Nello stesso tempo mi sono applicato sul manuale di orchestrazione per grossi organici
di Pippo Barzizza, che era l’unica pubblicazione del genere allora reperibile in Italia.
Dal punto di vista pratico mi è stato utilissimo, successivamente, il corso di scrittura
per big band della Berklee School of Music.

Infine, ho cercato di dimenticare tutti i modelli che mi erano stati suggeriti,
in modo da trovare una mia strada personale. Ma è stato un percorso lungo,
che a un certo punto, dopo aver avuto riconoscimenti importanti in Italia e negli Stati Uniti,
mi ha portato a un silenzio di sedici anni.

5

Chi è il tuo modello?

Non lo so: tutti e nessuno? Ellington? Kenton? Woody Herman,
con Ralph Burns, della Summer Sequence?

Forse il Duca è il compositore cui mi sento più vicino,
sia per l’approccio sinceramente emozionale sia per la tendenza
a scrivere musica destinata a particolari voci, non solo solistiche
ma fondamentali anche nel sound orchestrale.

Dove non ho dimenticato l’antico amore per Kenton è nella ricerca di una certa perfezione esecutiva.

C’è però, da parte mia, un utilizzo della cosiddetta sezione ritmica che si stacca,
io credo, da ogni modello esistente di big band

6

Riesci a immaginare un mondo senza orchestre? Visti i tagli alla Cultura…

Ci saranno sempre gruppi di musicisti che si uniranno
per costituire organici più o meno ampi: l’esperienza
del suonare insieme in maniera organizzata è qualcosa di entusiasmante e non può essere sostituita.

Certo, tutto è molto difficile: è quasi impossibile trovare i soldi per mantenere in vita una grossa formazione.
D’altra parte è proprio la grossa formazione che può svolgere una funzione
importante per insegnare ai musicisti a combinare disciplina e creatività.

Paradossalmente, riescono a sopravvivere quasi soltanto le formazioni
che fanno una musica di imitazione, di revival.

7

Le orchestre sono dinosauri in via di estinzione o vedi possibilità di evoluzione?

C’è sempre la possibilità di scoprire nuove strade, nuovi suoni, nuovi approcci,
nuove combinazioni. Ma bisogna avere il coraggio e l’agilità mentale necessari
per non dare niente come scontato e per mettere insieme in maniera innovativa
elementi che sembrano avere ormai compiuto il loro ciclo vitale.

Non ci può essere pigrizia mentale e si deve essere pronti a un po’ di sacrifici.
D’altra parte, il mondo della musica creativa è sempre stato così.

8

Per fare i direttori di una grande orchestra, quanto bisogna contare su se stessi
e quanto su manager e operatori culturali vari?

Non lo so: purtroppo io non ho né manager né operatori culturali che mi diano una mano.
Mi aiutano i musicisti che suonano con me, che da qualche anno hanno una certa fiducia
nelle mie capacità e che indubbiamente sono straordinari.

Effettivamente, se ci fosse qualcuno a occuparsi delle cose pratiche, compresi i concerti,
non sarebbe niente male.

9

Chi ti piace ora, che si esprime musicalmente con l’Orchestra?

La Liberation Orchestra è ormai (o ancora), a mio avviso,
la sola realtà profondamente originale in questo campo.

E non è un caso che lo sia da molti anni…

10

Hai mai pensato di fare un disco omaggio a qualche tuo Maestro?

Ritengo che le opere in stile non possano mai avvicinarsi alla qualità degli originali.
E, dato che esiste già tanta musica originale di grande bellezza, credo valga la
pena di esplorare qualche strada nuova, o perlomeno diversa. Senza mai dimenticare –
è ovvio – quello che è stato fatto prima:
la storia delle arti è come un lungo filo rosso, dove tutto è collegato.

11

Un tuo sogno non ancora realizzato?

Portare la mia musica e i miei musicisti in tournée.
Ma, con i tempi che corrono, la vedo abbastanza dura.

12

Se potessi esprimere un desiderio e scrivere per un Artista anche del passato,
per chi ti piacerebbe scrivere?

Miles Davis. Quel suo linguaggio sintetico e astratto da incastonare
e esaltare in atmosfere cangianti sarebbe qualcosa di unico.

13

Il futuro di DBvdN?

Il nostro futuro dipende da un’infinità di fattori: e la maggior
parte sono purtroppo estranei alla nostra volontà. Particolarmente in questo momento.

Penso comunque di ricominciare a scrivere fra qualche mese;
ora sono ancora troppo coinvolto nella musica che ho appena pubblicato.

Mi sto chiedendo in quale direzione andare, per non replicare quello che ho già fatto,
perché sono del parere che il fatto creativo sia anche una ricerca continua di nuove strade,
sia pure sempre coerenti con la nostra personalità e le nostre idee.

Dino Betti Van Der Noot – September’s new moon

Dino Betti Van Der Noot: composizione, arrangiamenti
Ginger Brew, Sofia Woodpecker: voce
Alberto Mandarini, Alberto Capra, Gianpiero Lo Bello, Marco Fior, Luca Calabrese: tromba, flicorno
Humberto Amesquita, Carlo Napolitano, Francesca Petrolo: trombone
Gianfranco Marchesi: trombone basso
Francesco Bianchi: sax alto, clarinetto
Sandro Cerino: dizi, piccolo, flauto, flauto alto, clarinetto, clarinetto basso, sax alto, sax soprano
Giulio Visibelli: banzuri, flauto, flauto alto, sax tenore, sax soprano
Gilberto Tarocco: flauto, clarinetto, sax baritono
Claudio Tripoli: flauto, sax tenore
Vincenzo Zitello: arpa
Luca Ventimiglia: vibrafono
Emanuele Parrini: violino
Alberto Tacchini: pianoforte
Matteo Corda: live electronics, sound programming
Vincenzo Alberti: basso elettrico
Stefano Bertoli, Tiziano Tononi: batteria, percussioni

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