L’immaginario del Jazz deve moltissimo alla fotografia.
Sono moltissimi gli Artisti visivi che hanno aiutato i jazzisti a definire meglio la loro identità.
Da Armstrong in poi, la fotografia ha aiutato moltissimo la diffusione del jazz, un ‘Arte nuova,
“moderna” e nata interamente nel Novecento e ha meglio definito dei modelli di riferimento legati all’ambiente in cui si è sviluppata e al suo immaginario.
In Italia, uno dei Maestri in assoluto è Andrea Boccalini che, negli anni,
ha elaborato uno stile originale e ha realizzato centinaia di copertine per cd di grande qualità.
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L’immaginario del Jazz deve moltissimo alla fotografia.
Chi è stato secondo te, il primo grande fotografo della storia
che ha saputo specializzarsi in quello e ha creato un linguaggio?
Sicuramente William Gottlieb è stato il precursore dell’icona jazzistica a cui siamo abituati, seguito a ruota da Claxton e Leonard. Credo che abbiano non solo creato un’immaginario del jazz ma dell’America. Guardando Jazzlife di Claxton non possiamo che accorgerci che l’America rurale del sud, l’America delle città ce la immaginavamo come l’ha ritratta lui attraverso la musica. Loro avevano il vantaggio dei locali fumosi, in un paese dove non si può fumare più nemmeno per strada, ma battute a parte penso che in nessun genere musicale, la fotografia abbia contribuito a creare l’icona come è accaduto nel jazz. Ho visto delle immagini di backstage di loro che lavoravano. Stavano in questi club angusti dietro o davanti ai musicisti, e che musicisti, con gli assistenti che gli reggevano i flash al magnesio, immagina che rumore potessero fare. Mi viene da ridere quando vedi musicisti che si rifiutano di suonare o fanno scenate isteriche per via dei fotografi o di un click, Coltrane suonava con le esplosioni del magnesio ad un metro e non credo smettesse di suonare, magari se accadeva su un solo o un momento intimo si incazzava anche lui, però adesso penso che molti esagerino sebbene alcune volte vi siano delle mancanze di rispetto anche da parte dei fotografi. Aprendo invece una parentesi sull’Italia, a parte gli straordinari ritratti di Giuseppe Pino, penso che una parentesi importante della fotografia di Jazz sia stata scritta da Roberto Polillo, che se fosse stato di New York oggi lo celebreremmo al pari dei suo colleghi americani, e Elena Carminati, le immagini del suo libro “jazz tales” sono stupende.
Come hai iniziato ad interessarti alla fotografia
quali sono i Maestri che ti hanno ispirato
Io Ho iniziato da piccolo perché mio padre era un appassionato di fotografia e mi sono ritrovato abbastanza presto con una macchina fotografica in mano, anche con risultati abbastanza promettenti. Poi a 18 anni ho mollato tutto per una serie di vicissitudini interiori. Fino a 27 anni non ho più toccato una macchina fotografica, nemmeno una compatta per le feste di compleanno. Poi ho ritrovato la voglia di fotografare e a 31 anni, piuttosto tardi, appena preso il tesserino da giornalista ho mollato l’eventuale carriera giornalistica perché volevo fare il fotografo, la passione aveva ripreso a bruciare. Il motore della mia passione fotografica è stato sempre il reportage, e la fotografia sociale, il mio mito era Tano D’amico. Quando mollai il giornalismo avevo fatto un paio di reportage piuttosto interessanti sul lavoro minorile in Guatemala e su un movimento di resistenza di contadini che si opponevano alla costruzione di una miniera da parte di una multinazionale Canadese, sempre nel nord del Guatemala, sono diventati una mostra all’ONU dei Giovani e una pubblicazione di un libro realizzato da una Onlus Olandese sul conflitto minerario in Guatemala. Poi ebbi una crisi di coscienza e decisi di concentrarmi sulla fotografia di scena, soprattutto teatro.
Di maestri ce ne sono tanti. Per la fotografia di jazz amo particolarmente ricordare la fotografa Newyorkese Lona Foote che è morta prematuramente nel ’93 a 42 anni. Ha lavorato a lungo ritraendo l’avanguardia artistica di Ny negli anni ’80 e all’interno della sua ricerca ha riletto a scardinato molti canoni estetici della fotografia di jazz, lavorava con una leica e solamente come ottica un 35 mm, mi ha fatto riscoprire la voglia di raccontare ciò che accade su un palco anziché cercare lo scatto ad effetto. Smith è il mio nume ed è più noto per i suo reportage, ma il suo libro “Jazz loft”, che ha segnato il suo passaggio spirituale da cronista a fotografo in grado di vivere le vicende che stava raccontando, rimane una pietra miliare non solo per la fotografia ma per il jazz stesso. Abbandonò una carriera dorata e si ritirò per due anni in un loft scalcinato di Downtown nel quartiere dei fiorai. Qui ritrasse e registrò tutti i jazzisti che suonavano in quegli scantinati tra cui anche Theolonius Monk, ma dalla sua finestra fotografò anche quelle strade in maniera quasi ossessiva alla ricerca del ritmo jazz nel ritmo delle strade di una delle zone più malfamate di New York. Insieme a quelle migliaia di registrazione le sua immagini rimangono Un’opera monumentale.
Oltre a loro ci sono Arnold Newman, il maestro assoluto del ritratto; Franco Pinna, il cui stile è unico ed emotivamente grandioso; Sandro Becchetti, anche lui ritrattista straordinario e di una semplicità la cui efficacia è disarmante; Guy Le Querrec, che coniuga jazz e reportage con risultati straordinari; El Greco, per la sua visione dell’anima e dell’umanità; Caravaggio, maestro indiscusso della luce tagliata e Piero della Francesca per la sua perfezione stilistica e la sua ricerca compositiva.
Suoni qualche strumento?
Ho cominciato a studiarli, pensa che il primo fu l’Organo a canne, avevo sette anni, poi la chitarra classica. Il problema è che avevo insegnanti molto bravi come musicisti ma forse meno come insegnanti, dopo ore e ore di solfeggio e ore e ore di esercizi tecnici ho mollato, io sono un istintivo e diventavo pazzo ad usare la testa per tutte quelle ore. Ogni tanto finivo le decine di scale che dovevo fare sulla tastiera e iniziavo a sbatterci sopra come un folle. Però sono rimasto un assiduo ascoltatore di musica.
Come riesci ad instaurare un rapporto con l’artista che fotografi , visto che i tuoi soggetti sembrano interagire molto con te
Forse perché non mi metto sul piedistallo quando li fotografo, anziché imporre la mia visione fotografica cerco di farla interagire con la loro personalità. E’ un rapporto di fiducia e di onestà, far sapere che togliere la maschera, che alcune volte si indossa per il pubblico, serve a mostrare un lato di se stessi ancora più bello e interessante. Uno scatto è riuscito, e non parlo tecnicamente, quando il soggetto si è liberato del ruolo e si è sentito libero di essere se stesso, cogliere quella libertà è la sfida del ritratto, ma non ci sono regole scritte perché ciò accada è un processo molto umano.
E’ un pò come stare ad un bar e trovare un barista che ti ispira ad aprirti anche se non lo conosci.
In una sessione fotografica io sono il barista. Tecnicamente devo fare solo attenzione affinché il vino non esca dal bicchiere o che sia troppo poco, e che il bicchiere sia adeguato per far apprezzare ciò che servo. Ma perché l’avventore sia pienamente soddisfatto deve sentirsi rilassato e libero di essere se stesso senza essere giudicato.
Insomma ci si deve divertire e sentirsi a proprio agio, e fortunatamente quasi sempre accade.
Le nuove tecnologie permettono a chiunque di poter fare se non ottime, buone foto..
cosa fa la differenza?
Le nuove tecnologie aiutano sicuramente a fare delle ottime foto, ma solamente da un punto di vista estetico e tecnico. Fortunatamente non sono in grado di ricreare la realtà impressa nell’immagine. La differenza quindi è nella capacità di saper cogliere lo sguardo del soggetto ritratto o il momento cruciale dell’evento a cui stiamo assistendo, li non esiste tecnologia che ci possa aiutare, o ci sei o no ci sei, o lo senti o non lo senti. La storia l’hanno scritta molte immagini belle e che raccontavano molto, oppure immagini esteticamente non impressionanti ma in grado di descrivere un epoca. La tecnologia aiuta solamente l’aspetto effimero della fotografia, ma non quello sostanziale che ha ancora un valore, sebbene più esiguo.
Hai un modello di riferimento?
Eugene Smith, anche se lo reputo un modello fotograficamente e umanamente inarrivabile, non so se avrò mai la forza di essere coerente al punto di rischiare che la coerenza e la mia etica mi distruggano come è accaduto a lui. E’ stato il prezzo che ha pagato per realizzare quelle che a mio parere sono le immagini più straordinarie e poetiche della storia della fotografia.
Claxton? un pensiero…
Tecnicamente perfetto e con una sensibilità per la musica fuori dal comune. Fotograficamente sapeva cogliere lo swing anche in un sasso
Come si “diventa” fotografi professionisti?
Con molta umiltà, guardando tante immagini dei grandi del passato e del presente, leggendone la vita, magari anche frequentando un corso che non costi decine di migliaia di euro, ma che ci aiuti a migliorare tecnicamente e a confrontarci, perché il confronto è determinante.
Poi occorre Mettere passione in ogni momento in cui si scatta senza anteporre le aspettative o le ansie sul futuro a ciò che stiamo facendo nel presente.
Nei Ws spesso mi sento chiedere “quanto dobbiamo farci pagare una fotografia?”
La mia risposta è “prima preoccupiamoci di fare una foto che valga la pena di essere pagata”.
Questo non significa dover lavorare gratis, anzi, ma semplicemente che occorre fare esperienza prima di riuscire a realizzare qualcosa che abbia un qualsiasi valore per gli altri e non solamente per noi stessi. Poi, non solo economicamente parlando, occorre essere disposti a fare tante sacrifici e tantissime rinunce che alcune volte costano molto. Per concludere bisogna soprattutto credere in se stessi e avendo la fortuna di incontrare maestri che, appurato l’aspetto tecnico, ti dicano che la tua diversità è una ricchezza anziché obbligarti a scattare come fanno loro.
Tu fai corsi o insegni?
Faccio vari Workshop e insegno ritrattistica in una scuola di fotografia di Pescara. L’aspetto didattico mi piace molto perché dai e ricevi, nei WS passare tre giorni su di un tema molto specifico, come la fotografia di scena, crea un legame con i ragazzi molto stretto e i risultati che si ottengono da questa condivisione sono incredibili. Non mi piace l’insegnamento in cui una volta usciti dall’aula ognuno va per la sua strada, come fai a spiegare quanto sia importante un legame umano con ciò che fotografi se poi non ti interessa creare un legame umano con coloro a cui lo stai spiegando?
Chi ha creduto per primo in te?
In ambito Jazzistico tutto è avvenuto abbastanza velocemente.
Senza dilungarmi troppo nel raccontare gli episodi specifici che li riguardano, in ordine di tempo Enrico Iubatti, Mario Guidi, Ermanno Basso e Francesca Campi della Cam.
Le persone a cui invece sono molto riconoscente, oltre quelle citate, sono molte altre.
Vivi fra l’Italia e l’America, dove ti trovi meglio?
A New York ci sono arrivato per realizzare le immagini per un progetto di Horacio el Negro Hernandez e l’ultimo disco degli Oregon. Poi in un aeroporto dove avevamo perso lo stesso aereo ho conosciuto la mia attuale moglie che viveva li e ho deciso di affrontare la Grande la mela, più per amore che per lavoro perché le cose in Italia stavano funzionando bene. Li si è aperto un mondo, per esempio nei jazz club capitava che incontrassi fotografi americani che conoscevano il mio nome, ma anziché guardarti di traverso, come purtroppo accade spesso in Italia tra professionisti, cercavano un confronto. Non mi scorderò mai quando un mio mito John Abbot, con cui ho collaborato e da cui ho imparato molto, mi ha chiesto di venire a scattare con me perché era curioso di vedere come lavoravo in esterni a luce ambiente.
Senza contare che musicisti come Zorn o altri, che qui in Italia sembrano inavvicinabili
e ai quali durante i concerti puoi scattare un minuto, lì puoi anche fotografarli per tutta la durata della Gig, se non fai cavolate e scatti nel momento giusto non gli importa nulla della tua presenza.
Penso che Il fatto sia che nei club a NY sono concentrati a suonare e a creare arte, in Italia capitalizzano e monetizzano ciò che hanno creato e quindi hanno un approccio più razionale con il palco e il contesto intorno.
In Italia rimane il fatto che la qualità della vita è ineguagliabile e personalmente ho avuto anche qui i miei riconoscimenti. In sintesi per ampliare gli obiettivi lavorativi NY ti offre orizzonti importanti e confronti costruttivi per la crescita professionale.
Inoltre rappresenta un test molto importante per prendere atto delle proprie capacità che se ci sono nessuno ha intenzione di smontarle e vengono sicuramente valorizzate, inoltre la concorrenza ti spinge a migliorarti anziché a distruggerti. Poi mettere a frutto queste esperienze anche in Italia.
I jazzisti, notoriamente poco avvezzi a curare l’immagine oggi ne sembrano addirittura ossessionati..
Marsalis fu il primo e gli altri hanno seguito a ruota…
quanto conta l’immagine rispetto al contenuto, ora?
Nel jazz non si è ancora arrivati ai livelli di esasperazione del Pop, tranne che per qualche caso piuttosto raro. penso che a salvarlo da questa deriva sia il fatto che il pubblico sia ancora di nicchia e sia un pubblico spesso consapevole dei contenuti e non si lasci ingannare dalle apparenze. Quindi si ha ancora la libertà di apparire per ciò che si è senza preoccuparsi di ciò che i media hanno venduto al grande pubblico per mascherare una carenza di contenuti artistici.
Questo in linea di massima, ovvio che poi c’è l’aspetto edonistico e egocentrico più o meno spiccato in ogni artista che può manifestarsi in diverse maniere. Finché questa attenzione non serve a mascherare un vuoto creativo e quindi ad ingannare la platea meno preparata non penso ci sia nulla di male. Negli anni passati si suonava in giacca e cravatta, e non a caso i jazzisti della vecchia scuola si presentano eleganti anche al sound check, difficile trovare Ornette Coleman in Bermuda e infradito.
Penso che Marsalis, Roy Hargrove e molti altri artisti con un look molto ricercato, più che ai musicisti pop si ispirino alla tradizione dei grandi jazzisti del passato, anche se con un appeal molto più mediatico. Per esempio trovo molto più ossessionati dall’immagine di se stessi quei musicisti che giocano sulla totale avversione all’immagine, Jarret docet. Penso che questi casi siano frutto di una strategia di immagine e comunicazione molto più estrema e studiata di quanto non lo sia l’attenzione al proprio look.
Cosa sogna Andrea, cosa gli piacerebbe fotografare?
Intanto due sogni si sono realizzati. Uno è che recentemente ho vinto insieme ad altri venti il concorso Leica a cui erano iscritte quasi 45.000 persone mandando tre vecchie immagini di reportage che avevo realizzato cinque anni fa. Ora sto facendo per conto della Leica un servizio sulla città di Terni come metafora di una comunità nata socialmente e culturalmente intorno all’industria pesante, praticamente è come se un bambino appassionato di macchine ottenesse un ingaggio in formula 1 con la ferrari. Un altro sogno che si è realizzato è stato quando ho scattato i ritratti a Wayne Shorter.
Tra i sogni difficilmente realizzabili mi piacerebbe ritrarre Tom Waits, e Berlusconi con lo stesso approccio con cui Richard Avedon ritrasse Bush tirandone fuori quel lato oscuro che nelle immagini passate dai media era stato sempre stato accuratamente tenuto nascosto. Tra quelli irrealizzabili ritrarre Jimy Hendrix e Nico dei Velvet Underground.
La fotografia è un occhio indiscreto che svela lati che magari l’Artista nasconderebbe..
tu li mostri a prescindere o tuteli l’Artista?
Più che l’artista Tutelo l’uomo, e questo valeva anche quando mi occupavo di reportage, e fu proprio questo a mandarmi in tilt. Purtroppo c’è una certa fame di immagini che mostrino un’umanità afflitta nel caso del reportage e un’artista debole e vittima di se stesso nel caso della musica. Tornando ai musicisti se non fosse così, nel momento di ritrarli non ci sarebbe quella fiducia necessaria per riuscire a far si che abbiano il coraggio di abbassare le difese ed essere se stessi. Nessuno andrebbe mai da uno psicologo che poi sbandiera le tue confidenze per farti del male. Per me vale la stessa cosa, io li sto fotografando perché artisti e perché si fidano di me, non solamente per la qualità delle immagini.
Posso magari spingermi a cercare un dissidio interiore o una malinconia per spiegare e mettere meglio in relazione l’uomo con la propria arte. Non mi interessa invece cercare lati negativi che con la musica non c’entrano nulla, ma che, soprattutto, sono difetti che avrebbe qualsiasi persona, e acquistano risalto solamente perché si tratta di gente famosa. La fotografia superficiale e scandalistica nella maggior parte dei casi ha solo il potere di sottolineare caratteristiche che sono negative per un comune senso del pudore o dell’estetica. Al massimo se devo rendere positivo un musicista che è un personaggio spregevole potrei rifiutarmi di fotografarlo, ma penso che nessuno sia tanto negativo da inficiare ciò che ha di buono, al massimo hanno dei caratteracci. Mentre con un personaggio politico ad esempio sarebbe diverso, Avedon quando ritrasse Bush ciò che ne tirò fuori era profondamente legato al suo ruolo pubblico.
Raccontaci una o più sessions che ti hanno colpito
per il rapporto che si è creato con il fotografato…
Ce ne sono moltissime, me ne vengono però in mente tre che aiutano anche a comprendere meglio alcuni concetti espressi in precedenza.
Una delle più importanti a livello fotografico è stata la prima che ho avuto con Enrico Pieranunzi. Era il primo lavoro con un Grande, che peraltro non amava, così mi avevano detto, farsi fotografare, e per di più in studio dove non avevo la minima esperienza. Il giorno prima andai a provare schemi luce per ore. La testa aveva preso il sopravvento sull’istinto e così il giorno della session mi preoccupavo solamente di trovare luci accattivanti senza preoccuparmi di quello che stava accadendo all’artista. Lui si innervosì, mi innervosii anche io e dissi che per me le foto che avevamo erano sufficienti e che era inutile continuare se era stanco. Poi lui mi chiamò per dirmi se una camicia che aveva portato poteva essere fotograficamente interessante. Ovviamente dissi di si e cominciammo a scattare. Stavolta però anziché cercare ossessivamente la luce, una volta posizionati i flash, cominciai a cercare l’uomo e l’artista e quindi ad interagire con Pieranunzi. Venne fuori un servizio che piacque molto e Con Pieranunzi cominciò una proficua collaborazione e un rapporto di amicizia. Li capii definitivamente che cosa significhi fare ritratto e non moda.
Un altra volta con gli Oregon a Central Park a meno 7 gradi stavo sdraiato in mezzo al percorso ciclabile. I ciclisti mi maledicevano, i turisti che mi fotografavano come se fossi pazzo, gli Oregon ridevano della scena che li rilassò.
Penso che per fotografare al meglio non solo gli artisti devono essere se stessi ma anche il fotografo. Oppure di recente prima di scattare le immagini del suo trio, Jeff Ballard mi disse che voleva un immagine intensa, in un luogo senza identificazioni geografiche con loro che guardavano avanti seri e concentrati sulla loro musica. Cominciammo a scattare seguendo questa idea e dopo un pò mi ritrovai a ritrarre Ballard, Zenon e Loueke che saltano e sullo sfondo le terme di Diocleziano. Questo perché è importante lasciare che le situazioni fluiscano.
Propositi per il futuro?
Di solito a questa domanda si risponde con frasi del tipo “continuare a fare del mio meglio e prendere ciò che di bello ha di offrirmi la vita”. Frasi ad effetto a parte, E’ successo tutto così velocemente che volere di più mi sembra esigere troppo. Troisi quando gli chiedevano di descrivere il suo successo come attore rispondeva “ogni giorno ho paura che qualcuno bussi alla porta e mi dica “scusi per l’equivoco” ecco alcune volte ho questa sensazione. Però ho anche dei propositi, mi piacerebbe davvero continuare su questo percorso per quanto riguarda la ritrattistica, magari spaziando anche in altri campi che non siano il jazz, con ciò non intendo dire che mi piacerebbe arrivare a fotografare Lady Gaga, sebbene sia probabile che lei non ambisca a me e che economicamente sia molto vantaggioso.
Mi piacerebbe ritrovarmi a ritrarre sempre di più personalità complesse, un punto luce uno sfondo neutro e sentire e avere quella sicurezza per sapere che è sufficiente e che è tutto ciò di cui hai bisogno per ottenere il massimo. Poi con questo progetto per la Leica ho riscoperto il reportage. Ti da delle sensazioni straordinarie, stare in giro una giornata intera e tornare a casa con tante storie e magari tre scatti buoni. Sto riscoprendo un vecchio amore, sotto una luce diversa e questo ha fatto nascere nuovi propositi accanto a quelli legati alla ritrattistica e alla fotografia di musica.
La Fotografia ha un futuro?
Diverso da quello che si poteva prevedere fino a qualche tempo fa, ma ce l’ha. L’unico rischio è che la velocità che ha dato il digitale al processo di fruizione e realizzazione delle immagini, tramuti le fotografie in un prodotto a scadenza breve. Mi ricordo che Luigi Ghirri, altro grande personaggio della fotografia Internazionale, parlava della morte di un genere di fotografia a causa dell’avvento della reflex e dell’accelerazione che questo aveva comportato nel realizzare le immagini.
Senza contare nella ritrattistica il risultato causato dall’ossessione dell’apparire. Un tempo c’erano i ritrattisti che quando raggiungevano l’apice del successo, con il loro stile venivano chiamati nel mondo della moda, accadeva anche il contrario ma comunque tutto era incentrato sulla personalità del fotografo. Ora accade spesso che vengano chiamati fotografi di moda a fare ritrattistica per togliere personalità e realtà, adeguandola al sentimento popolare inteso nella maniera più ovvia.
La fotografia di jazz invece ha un futuro minacciato dal dilettantismo, e sempre più sarà un genere tenuto a margine, in cui sarà sempre più raro vedere un Claxton che dal jazz viene chiamato nella moda.
Per dilettantismo non intendo il fatto che si viva o meno di fotografia, e nemmeno parlo solo di fotografi, ma parlo di qualità. Io sono stato fortunato, ma ho visto molti bravi colleghi massacrati dall’abitudine tutta italiana di coloro che hanno un lavoro comodo, magari noioso, e che appassionati di fotografia musicale regalano le loro immagini, spesso anche scadenti, a destra e manca. Non perché abbiano un obiettivo a lungo termine e vogliono fare gavetta per diventare fotografi, ma solo perché sono garantiti dal loro stipendio a fine mese; quindi per il gusto di vederle pubblicate su una rivista o su un cd.
Per esempio, tornando al paragone con NY, li questo accade difficilmente in quanto ci sono dei filtri per cui se l’immagine non è di qualità puoi anche pagare te ma non verrà mai accettata. Io trovo che sia un abitudine scorretta, pensa se i fotografi cominciassero ad andare a lavorare gratis negli uffici facendo licenziare chi viene pagato, verrebbero linciati.
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Molti fotografi sono ormai comparati ad Artisti di Arti Visive..
pensi di fare lavori da esposizione a parte la ritrattistica?
La ricerca mi affascina, all’inizio anche per l’eccitazione dell’avvento del digitale. Ora mi attrae di più la ricerca meditativa. Basata più su un interpretazione fisica attraverso l’apparecchio fotografico. Trovando e cercando nella realtà l’aspetto che meglio rappresenta il mio stato d’animo, piuttosto che ricostruire il mio stato d’animo in post produzione su PhotoShop. Girare per ore per scattare un’immagine, guardare la luce, luoghi e volti. Lo adoro. Ma fondamentalmente lo faccio per me stesso, per ritrovare i miei tempi.
20 il / la musicista più simpatico/a e disponibile che hai fotografato
Ci sono musicisti istrionici davanti all’obiettivo a cui puoi chiedere qualsiasi cosa o con i quali è sufficiente essere pronti a scattare perché fanno tutto loro, e musicisti più timidi con i quali avendo il tempo necessario il lavoro può diventare anche più stimolante per via delle complessità che emergono.
Brutte esperienze sinceramente non ne ho mai avute, anche perché quasi sempre ci siamo divertiti quasi sempre molto.
Poi ce ne sono alcuni con i quali è nato un rapporto di amicizia anche molto profondo e altri con i quali il rapporto rimane legato solamente alla sfera professionale, ma questo prescinde dal servizio fotografico. Non faccio nomi non per diplomazia ma perché dirne uno o due sarebbe impossibile.
Grazie per non avermi chiesto che camera uso, che lenti monto
e che programmi utilizzo per la post produzione.