Sono cresciuta in una bolla di sapone: è questo che mi ripeto da qualche ora a questa parte. Perchè, quando ieri sera ho visto le immagini della partita Manchester United-Liverpool mandate in onda dalla BBC, ho capito che anche qui, nel paese dove il multiculturalismo si pensa abbia vinto, qualcosa sta cambiando. Ed è decisamente un passo indietro.
Da lontano la Unione Jack, la famosa bandiera britannica, è diventata negli anni il simbolo di una libertà culturale, razziale, religiosa da far invidia anche ai liberali americani. E ne ero convinta anche io, almeno fino a ieri. Quello di Suarez è solo l’ultimo episodio. Un calciatore non dà la mano ad un avversario di colore. Quanto di più contrario esiste allo sport e ai valori a cui chi lo pratica dovrebbe ispirarsi? Vecchi rancori – si dirà a fine gara – ma rimane il gesto inaspettato, inaccettabile, incredibile. La storia è breve: Suarez, attaccante uruguaiano del Liverpool, ha appena finito di scontare 8 giornate di squalifica per insulti razziali proprio nei confronti di Evra, francese, di colore, capitano del Manchester United. Insomma, mai occasione sarebbe stata più ghiotta per dimostrare che 8 domeniche lontano dai campi di calcio fossero servite a capire che il razzismo è da vigliacchi e che nulla ha a che fare con il calcio. Ma Suarez ci è ricascato, nonostante le scuse a fine gara. Questo episodio segue le polemiche nate in settimana dalle dimissioni di Capello. Il tecnico italiano non ha condiviso la scelta della Federazione inglese di togliere la fascia di capitano a Terry, accusato di aver offeso con insulti razzisti Anton Ferdinand. Insomma, per Capello nessuno è punibile (in questo caso togliendo il titolo di capitano della nazionale) finchè la Corte non si è pronunciata. Per gli inglesi, questo discorso non vale. Chi ha ragione tra Capello e la federazione? Difficile a dirsi e le dimissioni del mister hanno sicuramente anche altre motivazioni.
La (mia) bolla è scoppiata. E il motivo non è solo legato a quello che è successo sotto i riflettori calcistici. La storia è più complessa, più nascosta, più dolorosa. Ed è questa: vivere nelle “terre di mezzo” inglesi significa immaginare un paese che nulla ha a che fare con Londra. Un’ora di treno dalla capitale, Birmingham è la seconda città d’Inghilterra. Ed è anche la più multiculturale. Si fatica a trovare gli inglesi, tanti invece gli indiani e i pakistani. Insomma, una città nata durante la rivoluzione industriale che conserva ancora quell’impronta ottocentesca di terra di lavoratori del settore secondario. Ed è proprio qui che ho assistito al racconto di una storia di razzismo; qui, dove la presenza indiana è talmente forte da respirarla nell’aria in qualsiasi momento e in qualsiasi posto. Di turbanti se ne vedono in giro talmente tanti da farne presto l’abitudine. Simbolo di sottomissione, accompagna la vita degli uomini indiani sin dall’adolescenza. Esattamente come è successo al figlio del mio amico. Quattordici anni, andava a scuola con un turbante in testa, fino a quando, un giorno, ha cominciato ad essere vittima di bullismo da parte dei suoi compagni. I suoi genitori hanno mantenuto, nonostante i ventanni in Inghilterra, le loro tradizioni. Gestiscono un negozietto dove si trova di tutto: pane, latte, lotteria, frutta, verdura. Per loro, è come aver trovato il tesoro nel cuore dell’Inghilterra. Ma ora, dopo anni di sacrifici per integrarsi e sentirsi finalmente pienamente sia indiani che inglesi, sono costretti ad un passo indietro. Il capofamiglia ha deciso che quegli episodi erano insopportabili e che suo figlio non avrebbe più dovuto subirli. A costo di rinunciare a vivere la sua identità e la sua cultura. Ha detto la parola fine: suo figlio non indosserà mai più il turbante.
Tre storie dove si intrecciano razzismo, intollerenza, valori. Un palcoscenico come quello di un campo di calcio avrà più risonanza e l’Inghilterra alla vigilia dei Giochi Olimpici lo sa. Sa che dovrà ribadire al mondo che i cinque cerchi olimpionici saranno qui ancora stretti tra loro. E Cameron è corso ai ripari chiedendo un summit per parlare di razzismo. Rimane, invece, il dubbio su quello che questo paese sarà capace di ribadire a se stesso lontano da riflettori, nelle case di chi è sì cittadino di questo paese, ma soprattutto uomo le cui identità, religione, cultura hanno superato i confini geografici e cercano qui la loro dimora nella tolleranza e nel rispetto reciproco.