La Frusta LetterariaCome scrivere un best seller

A voi che scrivete, un suggerimento: indirizzatevi verso il best-seller, a scriverne uno intendo dire, e lasciate perdere la vostra pensosa elaborazione poetica del mondo. Diventerete ricchi come K...

A voi che scrivete, un suggerimento: indirizzatevi verso il best-seller, a scriverne uno intendo dire, e lasciate perdere la vostra pensosa elaborazione poetica del mondo. Diventerete ricchi come Ken Follet o Wilbur Smith e giunti al vertice del successo planetario come Paulo Coelho (quello della religione di “Quelo” di Corrado Guzzanti) potrete anche irridere quello scrofoloso di James Joyce, che scriveva in sanscrito e che si credeva di essere chissà chi, che neanche sua moglie lo leggeva. (Ma anche la moglie di Freud non leggeva le cose del marito, arciconvinta che scrivesse di sesso e pornografia).

C’è solo un però (che vale un Perù): nessuno ha scoperto la formula dei best seller, anche perché non appena venisse scoperta o inventata cesserebbero come d’incanto i best seller, essendo adesso alla portata di tutti. Ma se esiste, questa benedetta formula, deve essere custodita meglio della nota bevanda gasata color caramello.

Ma, dicono, ci sono regole di base che si desumono ex post, che si estraggono dai best seller in atto. Innanzi tutto a livello tematico va benissimo il sigillo delle tre “s”: sesso , sangue e soldi. Se aggiungete “salute” sono gli stessi temi dell’oroscopo, che infatti è lettissimo, e non c’è rivista seria che vi rinunci. Tanto lo sanno tutti: “non è vero ma ci credo” e una sbirciatina gliela danno anche se si dichiarano razionalisti copernicani. Il best seller di questa estate, quello delle sfumature di grigio, di una “s” ha abusato chiaramente: ma ditemi se la massaia inglese avesse portato il manoscritto in casa editrice se c’era qualcuno ex ante disposto a certificarne il successo planetario. Anche lì: i temi sono noti e girano attorno alle pulsioni fondamentali, ma la miscela, il dosaggio, fa parte dell’alchimia redazionale che nessuno conosce. E il successo è sempre inaspettato e imprevedibile.

Certamente, dicono gli editor, evitate a livello linguistico i termini difficili, quelli fuori dal migliaio di vocaboli noti agli sfasciacarrozze e alle commesse: evitate come la peste i termini algolagnico, eziopatogenesi e apotropaico. Volete scherzare? Eppure Umberto Eco ha scritto un best seller con le eresie medievali, i dolciniani, la Poetica di Aristotele, in un vortice narrativo ludico e combinatorio che ha irretito milioni di lettori in tutti il mondo. Certo ha usato il meccanismo di risoluzione (quello dei gialli o dei noir) piuttosto che quello, faticoso e paziente, del meccanismo di rivelazione, in cui lentamente e con grazia dovete, come una Jane Austen rediviva, dipingere un ambiente di giovinette unicamente prese da fidanzamenti e corteggiamenti in noiose città termali inglesi per noiosissime season. Eliminando esplicitamente scene di sesso (anche se qualche decennio dopo vi scoprono i canovacci furiosamente erotici del vostro pudibondo mondo femminile).

Ma dopo Umberto Eco c’è chi dice, eh sì, sta lì il segreto: nel multilivello. È come la torta millefoglie: devi costruirla a strati, in cui il lettore medio si prende il suo strato, quello alto il suo e quello basso il suo ancora. È il “millefoglie” inventato da noi da quel nevrotico di Manzoni. Innanzi tutto deve essere un romanzo: genere letterario spontaneamnete indirizzato non già al colto pubblico, come i noiosissimi Inni sacri, ma all’inclita guarnigione, alle fantesche e ai soldati, genere che qualche decennio prima in Italia era stato tentato solo da un oscuro abate bresciano, certo Pietro Chiari mentre tutti gli altri letterati si attardavano in Odi e Poemetti rifinitissimi ma letti solo nei palazzi Serbelloni e Sebregondi. Un genere, il romanzo di don Lisander, con il suo bel livello alto, per il lettore pio e scrupoloso: il tema di fondo del romanzo essendo veramente stratosferico: nientemeno che “la” domanda: c’è giustizia in questo mondo? e dentro e sotto questo tema il nevrotico autore nasconde, letteralmente, come la massaia la polvere sotto il tappeto, citazioni di Bossuet, Nicole, Montesquieu ecc. Poi c’è il livello medio della morale (ironica) a buon mercato della Provvidenza che aggiusta tutto, del curato pasticcione, e infine il livello basso delle trame proliferanti, delle locande, delle fughe, delle agnizioni, delle pesti… Il tutto condito con un linguaggio basico (risciacquato nell’Arno della lingua parlata) per il lettore medio, ma anche con plurilinguismo e pluridiscorsività deliziosi per il lettore alto: spagnolo, latinorum, burocratese ecc . ecc.

Insomma: il termine e la nozione di best seller si afferma nel mondo anglosassone non prima del 1895 (appare per la prima volta nella rivista “The Bookman). Ma il primo caso di best seller che conquista le due sponde anglofone dell’oceano diffondendosi poi in tutto il mondo è La capanna dello zio Tom della Harriet Beecher Stowe che esce nel marzo del 1852. Il libro venderà più di 1milione e mezzo di copie nei primissimi anni di pubblicazione e solo nell’anno di uscita 300.000 copie. Solo per fare una comparazione, La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne venderà appena 11.000 esemplari nei primi 5 anni della sua uscita (1850).

Dal che si desume che i best seller ci sono stati e ci saranno sempre come è ovvio. Ma la formula resta ignota. Il delizioso Stendhal, l’autore che scriveva nel 1830 e che era sicuro che sarebbe stato letto solo nel 1880, nel suo libretto autobiografico Vita di Henri Brulard (un alter ego che portava le sue iniziali Henri Beyle) tracciò un disegno in cui fa confluire la “route de se faire lire”, la strada di farsi leggere con la “route de la folie”, la strada della follia. Insomma “uscite pazzi”, direbbero a Napoli, se tentate questa combine. Le due strade corrono e si incrociano e voi rischiate di schiantarvi. Lasciate perdere il best seller e parlate tanto di voi (come suggeriva Zavattini), di come avete visto il mondo. Un altro autore francese però, Emile Zola, vi avverte nel Romanzo sperimentale che scrivere non è altro che l’incrocio (vero questo e produttivo) di “senso del reale” e del “temperamento personale”, essendo lo stile di scrittura una “sezione del reale attraversata da un temperamento”.

Ma non è una strada facile neanche questa perché c’è senso e senso del reale, e c’è temperamento e temperamento personale.

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