La Frusta LetterariaCreative writing? – Annotazioni sulle scuole di scrittura creativa

Proliferano le scuole di scrittura creativa e qualcuna, già celebre,  si sta pure allargando e diversificando, segno che la fede pubblica nella forza didattica di queste scuole si è consolidata. Ma...

Proliferano le scuole di scrittura creativa e qualcuna, già celebre, si sta pure allargando e diversificando, segno che la fede pubblica nella forza didattica di queste scuole si è consolidata. Ma qualche riflessione si impone. Quando leggiamo che lo scrittore Raymond Carver si dedicò per un certo periodo della propria vita – tra esperienze molto americane di lavori precari in portinerie e lavori porta a porta – ad insegnare in scuole di creative writing , cosa dobbiamo pensare? Sappiamo che Carver fu un grande estimatore di Anton Cechov, che in qualche modo assunse nella propria arte e nello strumento letterario prescelto – il racconto più o meno breve – lo “sguardo”, le atmosfere, il tono, il colore, l’ispirazione del grande scrittore russo, ciò che in un solo termine e in seguito verrà chiamato “minimalismo”. E ci chiediamo: Carver insegnava tutto ciò nelle sue lezioni di creative writing? Insegnava cioè come “spontaneamente” per fatti concludenti e per un atto di pura mimesi in genere si apprende l’arte dello scrivere? E la domanda che ci poniamo diventa pertanto questa: si può apprendere e/o insegnare l’arte della scrittura “creativa”?

Gli americani fanno bene ad aggiungere quell’aggettivo qualificativo, “creative”, perché di manuali di scrittura, commerciale ad esempio, sono piene le edicole delle stazioni. E tuttavia gli americani, che della “scienza” dell’how to do it (“come farlo” o manualistica) sono degli entusiasti propagatori planetari, non hanno arretrato davanti all’ipotesi della trasmissibilità non solo di una tecnica, ma di un’arte. Certo, loro potrebbero controbattere che dal punto di vista dei codici retorici sia la scrittura commerciale che quella creativa esibiscono proprie specificità, e quindi che è proprio a partire dalla diversità di tali codici che essi sono sottoponibili a didassi, una volta “isolati”, e per tale ragione, qualsiasi arte si risolve in una tecnica.

Un critico più che caustico della società e della mentalità americane come Dwight Macdonald, americano anch’egli ma di forti ispirazioni europee, sbertucciò l’howtoism, com’egli lo chiamava, in un saggio ormai dimenticato per la “Partisan Review” poi raccolto nel volume Against the American Grain (trad. it. di Domenico Tarizzo, Controamerica, Rizzoli, Milano 1969).

Macdonald metteva in connessione questa mania dei propri connazionali con la storia dell’America argomentando che «il nostro passato di frontiera e il nostro presente industrializzato ci spingono entrambi verso la tecnica, a capire “come” piuttosto che a capire “perché”». E infieriva con umorismo acre sull’howtoism fisso e fesso di chi scrive i manuali su “Come godersela”, o “Come riempire le giornate”, per concludere che «un’esistenza completamente professionalizzata, ché tale sarebbe il risultato se si sfruttasse appieno la letteratura howto, sarebbe mostruosa», sorprendendosi nello scoprire «quante cose uno ha saputo fare senza essere consapevole del fatto che ci voleva una preparazione specifica».

È chiaro che sia l’howtoism che il creative writing (sicuramente una forma di howtoism di alto livello), obbediscono all’istanza culturale di fondo della civiltà americana ( quell’american grain contro cui polemizzava Macdonald) poggiante sul pragmatismo e l’empirismo. Cioè i pilastri di una civilizzazione culturale verso cui molti superciliosi europei storcono le labbra, ma che è quella entro i cui confini nolens volens ci muoviamo un po’ tutti nel mondo civilizzato, compreso io che su un computer, “pensato” in America e in “americano”, sto scrivendo. Un postulato di tale civiltà afferma il fiducioso principio della trasmissibilità di tutte le nozioni e di tutti i saperi, dal livello high brow a quello low brow, e così facendo, opera un consapevole “abbassamento stilistico” di tutto ciò che per molti esteti sopraffini è comunicazione privilegiata, inattingibile, sublime… Insomma nulla è davvero così irresistibile ai colpi di maglio dell’onesto e basso-mimetico pragmatismo americano. Nulla è così irraggiungibile che non si possa spezzettare, e farne dei bocconcini per le menti meno attrezzate: anche l’Arte, anche la Scrittura Creativa!

Le obiezioni europee di fronte alla pretesa americana di insegnare a scrivere (o a diventare scrittori?) sono vecchie e consolidate. Perché, riconosciamolo, l’obiettivo è temerario. Si tratta di insegnare dopotutto un’attività spirituale come se fosse un mestiere, e non una vocazione sorgiva e irripetibile.
A Immanuel Kant si deve una pagina illuminante (nella Critica del giudizio) su un argomento analogo che però torna utile al nostro discorso.
« Tutti si accordano nel riconoscere che il genio è da mettere in opposizione assoluta con lo spirito d’imitazione. Ora, poiché l’apprendere non è altro che imitare, la più grande facilità ad apprendere, la più grande capacità, come tale, non può fare le veci del genio. Se anche qualcuno pensa o immagina da sé, e non si limita a comprendere semplicemente ciò che gli altri hanno pensato, ma inventa qualche cosa nel campo dell’arte e della scienza, tuttavia non si ha una buona ragione per chiamare una tale mente (spesso grande) un genio (in opposizione a chi, non potendo fare altro che apprendere e imitare, è detto un pappagallo); perché appunto tutto ciò che egli fa, avrebbe potuto impararlo, giungervi per la via naturale della ricerca e della riflessione secondo le regole, e non specificamente diverso da ciò che si può conseguire con la diligenza e l’imitazione. Così, tutto ciò che Newton ha esposto nella sua immortale opera dei principi della filosofia naturale, per quanto a scoprirlo sia stata necessaria una grande mente, si può bene imparare; ma non si può imparare a poetare genialmente, per quanto possano essere minuti i precetti della poetica, ed eccellenti i modelli. La ragione è questa, che Newton avrebbe potuto, non solo a se stesso, ma ad ogni altro, rendere visibili ed additare precisamente all’imitazione tutti i suoi passi, dai primi elementi della geometria fino alle grandi e profonde scoperte; ma nessuno Omero e Wieland potrebbe mostrare come si siano prodotte e combinate nella sua testa le sue idee, ricche di fantasia e dense di pensiero, perché non lo sa egli stesso, e non può quindi insegnarlo agli altri» (corsivi miei).

Questa visione dell’artista che crea come in trance, immemore e perciò incapace di ripercorrere i propri passi, e di mostrarli agli altri, di insegnarli, risente di una concezione secolare tutta incentrata sulla visione dell’artista- genio più che artigiano, demiurgo più che artiere, che crea dal nulla, ispirato direttamente dalle Muse o dagli Dei, o “da uno spirto che in cor forte mi rugge”e non magari da qualche manuale di retorica o di Ars poetica.
Edgar Allan Poe – un altro americano – interrogato sui procedimenti che lo avevano assistito nella creazione della poesia Il Corvo , rispose che per l’un per cento era da attribuire all’inspiration e al novantonove per cento alla transpiration, alla fatica, al labor improbus che omnia vincit come diceva Virgilio.

Dai tempi di Coleridge (si veda Biographia literaria) o di Flaubert (il quale amava ripetere il motto di Buffon: le génie n’est qu’une longue patience), l’artista moderno, contrariamente a quello che pensava Kant, è più che conscio dei procedimenti della propria arte.

Ora, nell’arte narrativa c’è sicuramente una tecnica tanto complessa quanto invariata. Nessun’ arte quanto il racconto infatti è rimasta immutata nei secoli. L’arte del narrare non ha fatto nessun progresso dai tempi di Omero. Tutto è conosciuto, quanto ai suoi elementi compositivi e strutturali, dai primi esordi dell’arte del narrare: il discorso indiretto libero, l’analessi come la prolessi, la mise en abîme o lo stesso monologo interiore come anche qualsiasi altra astuzia letteraria (si veda l’espediente del “manoscritto ritrovato” che Umberto Eco ruba a Manzoni che ruba a Cervantes), compresa la sciattezza dei verbi che aprono o accompagnano il dialogo che fanno tanto minimalismo in Carver ma che erano la norma in uno scrittore come Defoe (che usava quasi solo says, dice)
Difficile pertanto rispondere alla domanda: cos’è che fa di Madame Bovary un capolavoro, facile invece intuire cos’ è che fa di quest’opera un romanzo. Ricostruire i suoi elementi costitutivi e strutturali non dovrebbe essere difficile anche a un lettore sbadato o inconsapevole. È perciò possibile procedere a ritroso nella ricostruzione della tecnica del romanzo, estrarne dei principi e insegnarla. Insomma è facile insegnare a scrivere un romanzo, per nulla a diventare un romanziere.

Sulla base di queste acquisizioni onestamente trattate in forma howtoism (con lo stesso spirito fiducioso e un tantino sciocco di questa manualistica) una buona scuola di creative writing potrebbe aiutare uno scrittore vocato ad accorciare i tempi di apprendistato non certo a vedere meglio in se stesso ( e trovarsi). E già sarebbe tanto se uno scrittore vocato alla fine dei corsi (che pare costino quanto una seduta di psicoanalisi) non perdesse se stesso.
Queste obiezioni scherzose valgono soprattutto per la prosa d’eccezione, quella dei Flaubert e dei Musil, quella che ci dà i capolavori e non solo i romanzi. Per la quality fiction, invece, una scuola di scrittura creativa sarebbe quasi raccomandabile. Troppi scrittori, sceneggiatori, giallisti pasticciano non poco con la vecchia e nobile arte narrativa. Una buona scuola potrebbe loro insegnare come condurre un dialogo, sbozzare una scena, sfumare un’ellissi, sbobinare un intrigo, tagliare una trama, o anche un uso sapiente dei verbi elocutivi o infine un’aggettivazione espressiva ed appropriata.

Credo che queste scuole potrebbero rendere un buon servizio se si limitasero paradossalmente a insegnare a “scrivere bene” e non a “scrivere”. Ricordiamo che Flaubert si lamentava di Balzac, e scrisse in una lettera non appena seppe della sua morte: «Quale scrittore sarebbe stato se avesse saputo scrivere!». Flaubert intendeva dire però «…se avesse saputo scrivere “bene”». Ossia come scriveva lui, piegando la prosa alle regole del verso poetico. Noi sappiamo però che proprio la scrittura di grana grossa di Balzac, rispetto a quella flaubertiana, la sua scrittura “sporca” (agnizioni ad ogni pagina, travestimenti rocamboleschi dei suoi personaggi), il carattere dilatato e “romanzesco” dell’insieme della sua opera sono ancora irresistibili e affascinanti per noi lettori e ci rendono tanto amabile la sua figura di scrittore. Un Balzac che per puro caso fosse andato a scuola di creative writing di Flaubert sarebbe stato ucciso in culla o nella migliore delle ipotesi avremmo avuto un pessimo Flaubert.

Insomma in una scuola di creative writing si può insegnare a “scrivere bene” a chi paradossalmente non sa “scrivere” (chi non ha nulla o poco da dire); mentre insegnare a “scivere bene” non ha alcun senso per chi sa scrivere (Dostoevskij, Tolstoj e Balzac non scrivevano “bene”). Insomma in una scuola di creative writing tutto si può insegnare e imparare tutto tranne l’originalità, il temperamento, lo stile di un artista.

E comunque sia, occorre ben rammentare che un conto è imparare le mosse del tango e un conto è… ballare il tango.

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