Nel “Meridiano” Mondadori appena uscito è contenuto il romanzo La ruga sulla fronte, letto all’epoca in cui uscì (2001). Questo il mio resoconto.
Sappiamo molto e poco di Scalfari.
Quel molto proviene dal personaggio pubblico e giornalista principe, liberale di sinistra e illuminista, che è diventato con gli anni una specie di nostro padre putativo. Quelli che avevano vent’anni negli anni ’70, quand’egli lanciò “Repubblica”, molto gli devono in termini di crescita intellettuale, morale e civile. Senza il suo giornale non saremmo quello che siamo, nel bene e nel male.
Quel poco della sua vita e della sua intimità comincia a venire fuori adesso, dopo i libri di memoria quali La sera andavamo in via Veneto e i romanzi che il grande giornalista sta redigendo in questa fase declinante della sua vita.
Da questi scorci credo che Scalfari si configuri (o ami configurarsi) come una specie di dandy, ma non nelle forme tutte artistoidi e dissipate che conosciamo ad esempio in Baudelaire – che operano in contrapposizione all’ ethos borghese -, piuttosto in quelle del grande borghese, alla Arnheim, dell’ Uomo senza qualità ( Musil lo definiva un “misto di anima e di prezzo del carbone”) che aspira a rendere “artistica” tutta una vita borghese condotta tra bilanci, rotative e inchiostri. Questo trafficare poi con le proprie idee definendole con Diderot “le mie puttane” , questo meditare in forma désabusée sui fatti di un’intera vita immerso in una vecchiaia ingombrante e avendo davanti la Morte, potrebbero suggerirci un sospetto di estetizzazione dell’esistenza. Ma non è così: Scalfari non è un esteta, è principalmente un illuminista, con un occhio aperto sulla società e uno sulla realtà interiore, ma è quest’occhio puntato sul di dentro che, scopriamo, sembra aver diretto quell’altro.
Parliamo allora di questo romanzo. È la storia del vivere inimitabile di Andrea Grammonte giovane dandy, erede della “Sidera”, primaria industria nazionale i cui interessi “erano così importanti da coincidere quasi con quelli dell’intero paese”. Diciamo subito che se si ritagliasse il profilo di Andrea e lo si sovrapponesse su quello di Gianni Agnelli poco dell’uno e dell’altro avanzerebbe al perfetto combaciamento. E d’altronde manca solo la erre moscia del bleso riferimento della vita reale, perché tutto il romanzo è disseminato di dirette allusioni: la morte violenta del “delfino” Enrico padre di Andrea e figlio del capostipite della dinastia industriale; il passaggio del testimone al nipote dalla fama di “giovin signore dissoluto”; laureato in “Ingegneria” con “una laurea di guerra”; la guerra in Africa; la passione per le belle donne e la cocaina…C’è poi una donna nel romanzo (la madre di Andrea) che ha “un collo lungo di cigno come quello delle modelle di Modigliani, delle madonne del Parmigianino” che rimanda invece a qualcun’altra della vita reale, e c’è infine qualche (involontaria?) perfidia linguistica quando un personaggio è fatto entrare “nella stanza del piccolo agnello”. Insomma un romanzo a chiave dove i personaggi-misti (metà invenzione e metà realtà) si mischiano a quelli reali appellati con nome e cognome (Capanna, Carli, Nenni) così come la “Sidera” e la “Polisider” s’intrecciano ai nomi di Parisbas, City bank e First Boston Corporation. Non c’è da stupirsi: già nei romanzi di Balzac o Maupassant un Vidocq e un Périer transitavano dalla realtà alle pagine di un romanzo… E dato che abbiamo citato i francesi occorre rammentare che da noi il romanzo zoliano di documentazione sociale (sull’industria e sui suoi campioni com’è questo di Scalfari) ha avuto scarsa fortuna. Certo ci sono state le inchieste giornalistiche (sulla “Razza padrona”, dello stesso Scalfari ), ma un romanzo grazie al suo ampio spettro metaforico ha la capacità di catturare “questo” tempo e “questa” storia e all’istante di liberarla del suo involucro contingente e cronachistico e di darci dunque “la” storia, quella che attingendo al nucleo metastorico dell’uomo aspira all’esemplarità.
Questa è la sfida segreta di Scalfari nel tallonare Andrea Grammonte: lo segue, dunque, dal primo dopoguerra, quand’egli prende le redini in mano della propria azienda, fino agli anni del terrorismo e di Tangentopoli, tracciandone un profilo piscologico (la noia moraviana del ricco rentier), sentimental-sessuale (la liaison libera e audace con Laura Vidoni), morale (c’è un’etica negli affari?), politico etc. L’attenzione del romanziere si divide tra le ragioni private e quelle pubbliche, ne consegue che pagine d’amore, di politica, di storia industriale e finanziaria siano fortemente avvinte in questi quadri viventi che il romanziere manovra come un ologramma: reclinando il quadro narrativo ora ti porta in evidenza l’uno, ora l’altro aspetto. Le pagine più belle sono quelle che girano attorno alle storie d’amore (Laura-Andrea, Laura-Lorenzo). Scalfari padroneggia la difficile materia sentimentale, la rende con “stile”, intendo dire che riesce a catturare con la scrittura il mondo inafferrabile dei sentimenti, che è il più difficile da rendere, perché se sbagli registro, se forzi le situazioni, puoi fare di una storia d’amore intensa e palpitante un cartiglio dei Baci Perugina: talora basta un termine fuori posto e avviene la catastrofe, il sublime precipita nel grottesco. Belle anche le pagine sull’emigrazione, sintetiche e molto espressive, rese con lingua mimetica calabro-italiana, mentre quelle sulla nazionalizzazione dell’Enel, della successiva crisi valutaria, non perdono resa artistica nonostante la trattazione di svelto resoconto giornalistico.
Il tema vero del romanzo è però la borghesia italiana (non solo quella milanese del Cappuccio) retriva e senza coraggio, chiusa nei suoi “salotti buoni” e nei suoi “patti di sindacato” finanziari, di scarse letture e senza cultura, incapace di conversare se non sulle rituali esecuzioni alla Scala e assecondando anche qui i vizi nazionali di dividersi su coppie in contrasto (Callas- Tebaldi, Muti -Abbado, Bartali-Coppi), ossessionata dalle tasse e priva di slanci, insomma un ritratto “in versi” di quella borghesia che il giornalista Scalfari ci ha dato per anni “in prosa”.
La voce narrante è a tratti piana e asciutta (priva di metafore baluginanti e aggettivazione ardita), una specie di italiano standard che ricorda il miglior Moravia, e non solo nel registro espressivo, ma nella delimitazione di un ambiente, nella trattazione dei tipi umani, nell’indicazione di un’atmosfera morale. A tratti mima invece la prosa svelta e casual del più ignavo scrittore giovanilista. Un po’ pesanti i monologhi interiori…
Il grafico del romanzo segue le linee di una gaussiana. Superate le prime indecise cinquanta pagine, s’accende e si mantiene vivo per due terzi e poi scende di tono nel sottofinale, il vero momento critico dei romanzi, quando tutto il lavoro è stato fatto e bisogna “chiudere” con forza ed esemplarità, incastrare l’architrave che “tiene” tutto l’arco narrativo. Qui Scalfari si perde, tenta la grande tela narrativa e accumula eventi su eventi: il sequestro di Filippo, fratello handicappato di Andrea, per mano dell’Anonima; la minivicenda di Michele Zaccaria, un compagno d’arme d’Andrea che, spiantato dal Sud contadino perviene a Milano, acquista coscienza sociale, si mette in proprio, e viene ammazzato dai terroristi; l’amore di Laura Vidoni per Lorenzo Cordero (Sergio Cusani?) e i tormenti politico-sessuali tra i due… insomma materia per altri dieci romanzi, ma che fanno franare però sotto il loro peso quello che abbiamo tra le mani. L’accumulo degli eventi fa perdere compattezza e vigore all’opera, la sfilaccia: le pagine si staccano le une dalle altre, e, benché belle in sé, perdono il loro effetto d’insieme che è quell’elemento olistico che fa di un romanzo un vero romanzo, ossia qualcosa di più della semplice somma delle sue singole componenti.