Si dice che le narrazioni sono importanti nell’immaginario collettivo. Tramontate le narrazioni seducenti delle ideologie che davano un senso alla narrazione della propria vita dentro la narrazione della vita collettiva e universale, i fighetti della pubblicità e della comunicazione dicono che occorre offrire ogni discorso dentro una narrazione (e hanno perciò sviluppato lo storytelling, i furboni). All’alba del terzo millennio si direbbe che il mythos (il racconto) l’abbia avuta vinta sul logos (o sulla concettualizzazione logico-discorsiva ) e sulla stessa ikon, l’immagine, quella che fa ripetere stancamente (ma non è vero!) che “una vignetta vale un editoriale”.
Ma la narrazione ridotta a mero espediente retorico, ripetuta percussivamente a ogni apertura di discorso disturba. Occorre avere un approccio morigerato con le proprie “metafore ossessive” (nozione di Charles Mauron, critico letterario-psicoanalitico francese) altrimenti lo sbadiglio è in agguato, oppure aizza la voglia di andare a “vedere il piatto”.
Ora, il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola è famoso per l’inarrestabile vena affabulatoria. Spesso torna, nell’eloquio immaginifico di questo Jacopo Ortis redivivo ( o sarebbe più giusto chiamarlo il Majakovskij di Terlizzi?), il termine “narrazione”. Che di recente, tuttavia, visto l’abuso parossistico che ne aveva fatto, egli sostituisce con “racconto”, “rappresentazione”, “discorso” o altri termini..
Prendiamo un lacerto a caso di questa “narrazione”:
Non c’è esercizio di critica da parte del centrodestra, loro descrivono una Puglia sub sahariana mentre noi abbiamo svegliato la Bella Addormentata nel bosco che era la nostra Puglia dopo dieci anni di stagnazione civile, economica a culturale. È stato un decennio nel quale la Puglia è rimasta orfana di una narrazione, senza visione: se manca questa non c’è capacità di narrare.
La narrazione con visione o senza visione sembrerebbe il grande discrimine dell’offerta politica italiana oggi. Da una parte, secondo alcuni, si situerebbero Berlusconi e Vendola, grandi narratori visionari, e dall’altra Bersani e Fini, privi addirittura di una narrazione adeguata. Per Andrea Canova i primi due sarebbero dei veri narratori e i secondi solo dei correttori di bozze.
L’assimilazione di Nichita al Caimano ha indotto alcuni a definire Vendola il “Berlusconi rosso”, e dal settimanale berlusconiano “Chi” egli è stato individuato addirittura come «l’ esponente della sinistra più simile al presidente del Consiglio ». (vedi qui) Dico subito che dai tempi di Bertinotti, Berlusconi e i berluscloni amano scegliersi subdolamente nella sinistra l’avversario più distante e meno eleggibile: lo coccolano, lo portano in TV, lo intervistano e intanto spaccano il fronte avversario. Bertinotti, vanesio com’era, c’è cascato e non vedeva l’ora di cascarci. Vedremo Vendola. Ma già in questa graziosa e benevola intervista del settimanale strategico dell’egemonia sottoculturale berlusconiana (settimanale che non è mai “innocente”), il nostro “narratore”, abilmente lusingato, straparla già come l’ultimo Testori, quello che mischiava, pastrocchiando non poco, omosessualità e cristianesimo.
Vendola in questa intervista rivela anche di tenere il rosario in tasca. Il rosario?! Qui siamo nella sprezzatura semantica, nell’adozione di un gesto che connota diversamente il segno e che fa mutare di significato il contesto. Un politico comunista coltissimo che si impossessa di un gesto cattolico antico, ormai desueto, appannaggio di beghine e di devote della Madonna di Pompei?! C’è qualcosa di impostato o pensato a freddo: potremmo dire con Roland Barthes (Miti d’oggi) che in questo caso «il segno funziona in eccesso, si discredita facendo apparire la sua finalità». Quella di attrarre l’elettorato cattolico?
In un recente libro di Daniele Luzzatti, La guerra civile fredda, è detto che gli strateghi elettorali della destra americana teorizzano che l’elettorato non vota in modo razionale, ma in base a suggestioni emotive, e che, il programma elettorale diventa secondario, se non sai come raccontarlo. Vince le elezioni chi sa raccontare una storia (rieccolo lo storytelling!): una storia che crei con l’elettore un legame emotivo. La narrazione emotiva si avvale di cinque mosse che consentirebbero di uncinare il lettore al narratore o l’elettore al candidato. Prima mossa: ostacoli da superare. Il leader ha un progetto, un disegno, una “vision” direbbero i fighetti, ma ci sono degli oppositori che glielo impediscono. Seconda mossa: le debolezze. Un leader non è amato se non ostenta debolezze che lo rendano simile al suo lettore/elettore. Terza mossa: volere a tutti i costi qualcosa. Solo questo genera nell’elettore passione ed entusiasmo. Quarta mossa: l’unicità. Il candidato/narratore è unico e irripetibile. Quinta mossa: protagonista e antagonista devono essere agli antipodi. Più viene divaricato lo spazio oppositivo fra i due, più la storia funziona.
Questo modello narratologico ricorda un po’ quello attanziale di Julien Greimas. Sulla scia di Vladimir Propp che aveva studiato le fiabe russe, Greimas aveva concluso – in soldonissimi va da sé – che stringi stringi ogni storia si chiude e si racchiude in sei funzioni dette attanti. (1) Il soggetto (per esempio, il principe) è colui che vuole o non vuole essere ricongiunto a (2) un oggetto (per esempio, la principessa rapita). (3) Il destinatore (per esempio, il re) è colui che incita a fare l’azione, mentre (4) il destinatario (per esempio, il re, la principessa, il principe) è colui che ne beneficerà. Infine, (5) un adiuvante (per esempio, la spada magica, il cavallo, il coraggio del principe) facilita la realizzazione dell’azione, mentre un (6) oppositore (per esempio, la strega, il dragone) l’ostacola. Certo, il modello attanziale di Greimas è molto fine e chic. La sceneggiata napoletana, che è certamente più rozza ma non meno efficace in termini di uncinazione del pubblico popolare, riduce a tre gli “attanti”: isso, issa e ‘o malamente.
Il modello “funzionale” proppiano o alla Greimas ci è di grande aiuto per capire il nostro agone politico. Se, volendo soddisfare l’esigenza narratologica di spiegare fortunes and misfortunes della nostra Moll Flanders (la sinistra italiana), riduciamo gli attanti a figure-tipo come il riformista o l’estremista utopico, il realista pragmatico o l’illusionista visionario, avremo un modello attanziale dicotomico (ancora più semplificato rispetto alla sceneggiata napoletana!) che di volta in volta trova la faccia di Turati e Gramsci, Craxi e Berlinguer, Prodi e Bertinotti, Bersani e Vendola.
Dai tempi di Ferrante Palla della Certosa, archetipo di tutti i febbricitanti estremisti italiani (ah bisogna scriverlo un saggio sull’estremismo italiano!), è il visionario illusionista che ha avuto più forza di attrazione sull’immaginario delle masse. Solo nel nostro Risorgimento, una specie di rivoluzione fredda condotta dall’alto (che per questo venne definita “conquista regia”), il politico taciturno e tessitore l’ha avuta vinta, e io dico per fortuna, sul rivoluzionario variopinto e dai capelli lunghi.
Il crinale fra i due attanti non passa al postutto tra due modelli meramente politici che riassumiamo alla grossa coi termini di “riformista” e di “rivoluzionario”, ma fra due movenze mentali: una fredda e razionale, logico-empirica, che procede per tentativi ed errori (tipiche le “lenzuolate” di Bersani) e l’altra calda ed emozionale, mitico-simbolica, come la narrazione vendoliana. Scriveva sull’argomento Carlo Tullio-Altan:
I processi di trasfigurazione simbolica hanno effetti positivi e negativi. Positivo è l’effetto della mobilitazione di larghe fasce sociali che si ottiene per il loro mezzo, grazie al quale è possibile premere sui centri decisionali di potere e indurli ad affrontare i problemi insoluti sul piano concreto; negativi sono invece gli effetti riduttori, dei quali, nell’estrema semplificazione dell’oggetto mitico per adeguarlo alla sensibilità di larghe masse, ne viene occultato il carattere talvolta estremamente complesso che rende in certi casi difficile la soluzione e che può essere solo il frutto di un accorto, lungo e paziente lavoro». (Carlo Tullio-Altan, La coscienza civile degli italiani, Gaspari, Udine 1997, p.211).
Insomma dopo la narrazione maculata da elementi lirici viene la dura « prosa del mondo».
Alla rivoluzione-champagne che dona ebbrezza (ma fa venire il mal di testa il giorno dopo), da tempo ho anteposto le riforme-caffellatte, quotidiane, noiose, ma che bisogna garantirsi ogni giorno. Da tempo ho appreso che le rivoluzioni non si riducono ad altro che nello spostare il peso da una spalla all’altra, che intervengono sulla superficie delle cose, tanto che c’è chi si è augurato di cambiare tutto perché tutto resti così com’è. E diffido d’istinto, in politica, dei poeti e degli affabulatori illusionisti.
Io rivoglio Visco!