La Frusta LetterariaIl pretore Salmeri e la centrifuga dei media. L’alba di folgoranti carriere politiche e letterarie

Tra gli anni Sessanta e Settanta operava Vincenzo Salmeri, pretore in quel di Palermo, inflessibile custode della morale pubblica e del comune senso del pudore. Si narra che andasse in giro con il ...

Tra gli anni Sessanta e Settanta operava Vincenzo Salmeri, pretore in quel di Palermo, inflessibile custode della morale pubblica e del comune senso del pudore. Si narra che andasse in giro con il metro per misurare le minigonne delle turiste e per infliggere severissime ammende alle reprobe. In seguito volse la sua attenzione ai libri e ai film e fu un vero tripudio collettivo, ilare, strapaesano, spassosissimo sul filo del grullesco. Non circolavano foto del pretore Salmeri e perciò lo immaginavamo come quell’attore (forse Ben Turpin o Mack Sennet) che nelle comiche del cinema muto, con la papalina in testa, la camicia da notte bianchissima e penzoloni sulle gambette torte e pelose, il baffo nicciano, gli occhi furbi e mobili, era pronto a sparare con lo schioppo contro ogni mosca o ombra che gli venisse a tiro.

Era diventata una macchietta il pretore Salmeri, ma com’è come non è, molti nelle case di produzione cinematografiche o nelle case editrici, cominciarono a sperare che quel filmino senza speranza, quell’operina senza futuro, capitasse a tiro del pretore Salmeri. E perciò si esagerava con qualche affiche scosciata che oggi farebbe ridere, o con qualche descrizione peccaminosa che oggi farebbe piangere. E puntualmente, implacabilmente, ossessivamente, il pretore Salmeri ne disponeva il sequestro su tutto il territorio nazionale. Immediatamente nelle case editrici e nelle produzioni si festeggiava e ci si abbracciava. Era fatta! E subito si ordinavano le fascette con su scritto “censurato” o “dissequestrato” che immancabilmente avrebbero corredato l’opera che di lì a qualche giorno sarebbe stata fatalmente rimessa in circolazione. Nel frattempo i media avevano speso i loro titoloni sull’operina senza futuro e i budget della réclame, come si chiamava una volta, erano totalmente risparmiati, anzi il “parlarne male purché se ne parli” aveva fatto il suo sporco lavoro con immensi ritorni pubblicitari.

Di lì a poco un fotografo furbissimo, Oliviero Toscani, mangiata la foglia, osò l’inosabile. Riempì le strade italiane di cartelloni “tre per sei” effigianti il deretano armonioso di una callipigia fanciulla fasciato a malapena da un jeans sdrucito chiamato “Jesus” con sotto la scritta “Chi mi ama, mi segua”. Ne scrisse Pier Paolo Pasolini con un pensoso articolo sul “Corriere della sera” virato su una specie di Salmeri-pensiero alto di gamma, e fu il botto. Toscani iniziò una carriera folgorante, sempre sul filo della provocazione, ma confezionando il prodotto commerciale sotto le buone intenzioni dei temi umanitari: la fame nel mondo, l’AIDS, la lotta alla mafia, oppure con temi chic et choc: le immagini di profilattici colorati, il bacio tra la suora e il prete, ecc. ma riuscendo sempre a far parlare i media e risparmiando sui budget della pubblicità.

Tutto ciò per dire che bravo oggi chi sa distinguere le buone intenzioni da quei malicious malware che sono i corposi interessi che esse veicolano. Fatto sta che il meccanismo si ripete, amplificato, per le migliori cause e le più sacrosante battaglie: difficile è distinguere, senza adeguati antivirus mentali, il grido autentico di denuncia dalla maliziosa réclame incorporata a beneficio della futura carriera, l’autentica indignazione dal trucco e parrucco, il file genuino del discorso artistico dal troian del tornaconto personale, il successo dovuto solo al merito o piuttosto a quello che in Francia si chiama succès de scandale.

Può accadere oggi che un magistrato impegnatissimo sul fronte della lotta alla mafia o del malaffare alimenti e utilizzi i media – che tutto macinano ciecamente come quei tritacarte acquistati di recente dalla Regione Lazio o quelli che si aveva in ufficio, rigorosa marca tedesca – in vista di una campagna elettorale che si giocherà di lì a poco: prova ne è che il simbolo, i siti, i manifesti sembrano essere nati prima delle assemblee fondative o con tempismi quanto meno sospetti se non visti e previsti da occhiute organizzazioni preesistenti che da tempo avevano puntato sul magistrato di grido…

Può accadere oggi che l’attoruncolo che si sfinisce in pesantissime pièce in periferici teatri off davanti a quattro esauriti venga improvvisamente minacciato dalla mafia (immaginare un mafioso che va a teatro è però come rappresentarsi un indigeno del Borneo con il cappotto) e da lì segua la denuncia e il clamore pubblici con l’immancabile carriera non teatrale eh no, ma politica dell’attore… Tutto e di più può accadere a chi osa, a chi ha capito il gioco, a chi ha mangiato la foglia…

Ricordi della bella gioventù sovvengono in questi intirizziti milanesi “giorni della Merla”, ricordi della calda città natale laggiù nella Sicilia dei perduti anni ’70 quand’era in corso l’indomita lotta tra opposti estremismi o tra capi di vestiario, eskimo contro bomber. All’improvviso un nostro eroe democratico Saretto Scannapieco finisce in galera per tafferugli politici. Viene rilasciato di lì a poco e appare infine tra noi; si aggira cupo e depresso ma circondato già da un alone da martire e l’aureola di una fama postuma, con pose liriche e dolenti alla Stepan Trofimovic Verchovenski, il “liberale superiore” che nelle prime scene dei Demoni di Dostoevskij difficilmente si riusciva a dissuadere che lui, Stepan Trofimovic, non era mai stato né perseguitato né sorvegliato dalla polizia zarista … Ma poi, qualcuno maliziosamente sparse la voce che quelle scritte cubitali, anche sul muro di cinta del carcere cittadino, che recitavano “ SARETTO SCANNAPIECO FUORI DALLA GALERA!” erano apparse un po’ ovunque nelle mura cittadine prima che Saretto venisse arrestato, o che, incredibile dictu, fossero state scritte da lui stesso…

Ma è solo una maldicenza, una ignobile maldicenza di una città di provincia…

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