Le ArgonauticheTre poveri Cristi

E se internet sparisse così, da un momento all’altro? Le conseguenze sarebbero catastrofiche, non c’è dubbio: dai siti di informazione, ai gestori di energia, ai cellulari, ai nostri conti in banca,...

E se internet sparisse così, da un momento all’altro? Le conseguenze sarebbero catastrofiche, non c’è dubbio: dai siti di informazione, ai gestori di energia, ai cellulari, ai nostri conti in banca, ai film in streaming, ai social, al 99% del nostro lavoro, gelosamente e misteriosamente custodito in anonimi files su di un cloud immateriale, tutto potrebbe essere trascinato via e cancellato in una frazione di secondo. Le persone a cui è andato irreparabilmente in crash il pc, o a cui hanno rubato da poco lo smartphone, sanno benissimo di cosa sto parlando. Pensateci un attimo. 

Gli esperti lo chiamano il Grande Blackout. A parlarne per primo in termini rigorosi è stato Dan Dennett, Direttore del Center for Cognitive Studies alla Tufts University di Boston, non più di qualche mese fa. Il suo invito è stato quello di cercare «almeno di prepararci (psicologicamente e non solo) a sopravvivere per le prime 48 ore di caos e paralisi totale» che deriverebbe dal Grande Blackout, perché «in quei primi due giorni forse ci giocheremmo tutto, l’umanità (almeno quella che abita nei paesi avanzati) rischierebbe di retrocedere in una sorta di Medioevo».  

Sarà vero? Probabilmente questo pericolo è così grande che non riusciamo a percepirlo compiutamente, o forse, per via della struttura stessa di Internet, policentrica, federata, non gerarchica, diffusa, flessibile, è semplicemente poco probabile che la rete mondiale possa essere esposta ad un collasso generale ed istantaneo. È un dato di fatto però che Internet, insieme ai tantissimi vantaggi, abbia portato anche qualche problema.

Uno di questi, per ora ancora poco studiato, è sicuramente quello dell’IRP, la Internet Related Psychopathology, ovvero la psicopatologia internet-correlata. Già, perché se è vero che di gente un po’ strana ce n’è sempre stata in giro, da recenti studi sembra che Internet fomenti i disordini di carattere psicopatologico. In particolare, le patologie preminenti sembra siano cinque: 1) dipendenza dal cybersesso, e non c’è bisogno di dire molto altro, 2) la dipendenza patologica da gioco d’azzardo on-line, 3) l’esclusività delle cyber-relazioni, ovvero coloro che preferiscono chattare con qualche sconosciuto o postare continuamente immagini sui social piuttosto che uscire di casa e incontrare qualcuno di persona, 4) la sudditanza compulsiva verso qualsiasi tipo di informazione online (dalle news, alle mail, alle notifiche social: basta far caso a quante volte controlliamo il nostro smartphone o tablet in un’ora per capire di cosa si parla) e, da ultimo, 5) l’immedesimazione con i personaggi dei giochi di ruolo.  

Essere supereroi o divinità per intere notti, protagonisti di vite eccitanti e parallele, stile I sogni segreti di Walter Mitty nel mondo virtuale di Internet e non in quello immaginifico di Hollywood, sembra sia un problema molto più diffuso di quanto si pensi. Internet e i videogiochi permettono, molto più facilmente che in loro assenza, di creare storie virtuali, trasformate in elementi di compensazione per i problemi reali della vita di tutti i giorni. L’identificazione in superuomini o in personalità di successo è un fenomeno abbastanza frequente quando si tratta di disturbi mentali: una volta lo stereotipo di questa patologia era il paziente che si credeva Napoleone, ora non più. Così, magicamente, un disoccupato diventa un manager di successo, un trentenne si trasforma in un dio onnipotente e una studentessa si sente sotto i riflettori delle telecamere come nel film The Truman Show. Un vero e proprio sdoppiamento di personalità, noto da tempo anche in letteratura, e solo amplificato da Internet.  

Voltaire, ad esempio, in una nota a Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, raccontava di un pazzo vissuto verso la metà del Seicento che, non potendo credersi Napoleone per ovvi motivi cronologici, si credeva nientemeno che Cristo. Quest’uomo venne rinchiuso in un ospizio dove però incontrò un altro folle che, ironia del caso, si credeva il «Padre Celeste». L’incontro tra Gesù e il Padre Celeste turbò così tanto il primo da causargli un (temporaneo) rinsavimento.  

Letto questo racconto di Voltaire, Milton Rokeach, psicologo americano di origine polacca morto nel 1988, pensò bene di provare ad intaccare quell’ergastolo mentale che è la paranoia patologica seguendo lo stesso “percorso terapeutico”. Egli provò a mettere in contatto, in modo continuativo e controllato, tre pazienti dotati di convinzioni simili riguardo alla loro identità: Clyde Benson, agricoltore settantenne alcolizzato; Jospeh Cassel, scrittore; Leon Gabor, ex seminarista e veterano della Seconda guerra mondiale.

Tutti affetti da schizofrenia di tipo paranoide. Tutti e tre convinti di essere Cristo. 

A partire dallo shock iniziale, se io sono Gesù Cristo, come è possibile che ci siano altre due persone in questa stanza che dicono la stessa cosa?, Rokeach narra l’esperimento in un’opera di grande poesia, cruda e divertente: I tre Cristi. Un libro interessante, non sempre di facile lettura, da cui però esce un ritratto lucido ed eteroclito di tre esseri umani nella loro completezza. Tre persone nel senso più pieno della parola: degli esseri unici e imprevedibili. È vero, dopo l’esperimento nessuno di loro si tolse mai dalla testa la convinzione di essere Gesù Cristo, ma è altrettanto vero che ognuno di essi continuò ad esserlo in un modo proprio ed originalissimo.  

Cosa che, forse, ognuno di noi quasi mai riesce a fare con le proprie personali follie, internet compreso. Lasciandoci così col dubbio che, in fondo in fondo, i poveri Cristi potremmo proprio essere noi.

@PARGONETO

(Questo articolo è l’editoriale del nuovo numero del Fanzine di Liberascienza)

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