Quando si fa un viaggio all’estero lo si capisce subito: siccome noi italiani non abbiamo mai imparato decentemente una lingua straniera, inglese in primis, gli abitanti del Paese che stiamo visitando si sono visti costretti ad imparare loro una lingua straniera, cioè l’italiano, per comunicare con noi. Perché altrimenti non saremmo nemmeno in grado di ordinare una bottiglia di acqua gassata, che è la “sparkling water” e non l’imbarazzante “uater uit gas, tenkiù”.
Ma che ci vuoi fare: alla nostra ignoranza reagiamo bonariamente con una scrollata di spalle. Tanto chi se ne frega, alla fine ci capiscono sempre, anche a gesti. Perché noi italiani siamo simpatici, come no.
Quando però ad avere questo atteggiamento da animatore-abbordatore da spiaggia non è un turista italiano qualsiasi, magari in cerca del solito caffè ristretto o del piatto di spaghetti nei luoghi più impensabili del pianeta, ma il capo del nostro Governo, la cosa assume contorni grotteschi.
E così, a leggere la traduzione de “IL DISCORSO DI MATTEO RENZI A NEW YORK COSÌ COME L’HA CAPITO UN AMERICANO”, tenuto al Council on Foreign Relations qualche giorno fa, vengono le lacrime agli occhi. Per l’imbarazzo, più che per le risate.
Dall’interessante “forma di culo del mio futuro” al fatto di non voler più discutere, dopo i Mondiali, “del bocchinaro”, passando per “l’ascesa della zuppa” fino agli “elfi negli asili nido attorno al paese”, dovremmo chiederci quale persona sana di mente (si rivolgeva infatti a uno dei più potenti think tank di politica estera del mondo occidentale), potrebbe essersi convinta a spostare i propri capitali in Italia dopo averlo sentito parlare.
Sia chiaro: il problema non è Renzi che non sa parlare bene l’inglese, abbiamo tollerato limiti molto più gravi a tantissimi politici che lo hanno preceduto, quanto la spavalderia ciarlatana di chi sa di non saper fare qualcosa, ma la fa comunque. La fotografia precisa dell’atteggiamento, idiota e molto diffuso, degli italiani che hanno condotto l’Italia al punto in cui si trova.
Ma Renzi è solo la punta dell’iceberg di questo modo di fare. Per averne conferma non è necessario aspettare di vedere i nostri politici andare all’estero: vi basta ascoltare, quando vi capita, un qualsiasi loro intervento in un qualsiasi consiglio comunale o regionale, o in uno dei tanti convegni pecorecci ai quali vengono continuamente invitati per rivestire di autorità istituzionale il nulla di cui spesso si parla.
Sono pochi, pochissimi, quasi inesistenti, quelli che quando intervengono ufficialmente su un tema leggono il loro intervento, fateci caso. Parlano a braccio, si dimenano, ripetono all’infinito gli stessi due concetti dall’inizio alla fine. Sono l’equivalente istituzionale del turista alla ricerca della “uater uit gas”: senza il minimo rispetto per chi li ascolta, oltre che per il ruolo che ricoprono.
Non è un caso: scrivere richiede tempo, impegno, competenza. Scrivendo ti rendi conto delle cose che dici, ci ragioni, sei costretto a ragionarci. Perchè è ovvio: scrivere un intervento non è facile come scrivere un tweet, con i quali ormai ci sommergono. Tweet con cui non dicono niente lo stesso, ma riescono benissimo a farlo in soli 140 caratteri.
Bisognerebbe fare come loro, occhio per occhio, dente per dente, tweet per tweet: al politico che parla a braccio e ci costringe all’umiliazione di ascoltarlo ciarlare cose insensate, potrebbe essere sufficiente inviare in tempo reale un tweet: “sparkling water”. Non capirà cosa vogliamo dire, ma almeno saremo pari.
@PArgoneto