“The imitation game” è un film molto interessante sulla vita di Alan Turing. Sebbene contenga qualche forzatura narrativa e a volte si discosti un po’ dalla verità storica, ha l’indubbio merito di far conoscere al grande pubblico la figura di uno degli scienziati più importanti dello scorso secolo.
Volendo riassumere molto brevemente i tratti salienti della sua vita, potremmo dire che è stato: un importante matematico e un pioniere dell’intelligenza artificiale, una figura insieme centrale ed eccentrica della storia dello spionaggio durante la Seconda guerra mondiale, un omosessuale martire.
Fu un uomo piuttosto colorito. Il suo aspetto era trasandato, con la barba sempre lunga e le unghie sporche. Infantile (si fece regalare un orsacchiotto di pezza per Natale, a ventidue anni) e antiaccademico. Abbandonava le conversazioni vuote e le compagnie idiote repentinamente, senza una parola di commiato. Imparò a fare la maglia da una ragazza che aveva deciso di sposare, nonostante la propria omosessualità. Andava in bicicletta con la maschera antigas durante il periodo dell’impollinazione, per evitare l’allergia. Legava la tazza da tè al termosifone con un lucchetto per timore che gli fosse rubata e portava la giacca del pigiama al posto della camicia. Giocava a tennis nudo sotto un impermeabile, e non disdegnò di discutere con un bambino se Dio avesse potuto davvero prendere il raffreddore se si fosse seduto a terra.
Turing però è stato anche, e soprattutto, lo straordinario scienziato che dobbiamo ringraziare per aver decifrato, insieme ad altri studiosi, il codice Enigma utilizzato dai nazisti per cifrare i propri comandi militari. In questo modo egli contribuì in modo decisivo alla vittoria degli alleati contro Hitler, abbreviando la durata del conflitto e salvando un numero imprecisato di vite umane (nell’ordine di milioni).
Inoltre, se in questo momento siamo in grado di avere un blog o un sito, di navigare su internet, di scrivere un’email o più semplicemente di avere a disposizione un qualsiasi computer sulla nostra scrivania lo dobbiamo a lui. È stato infatti il primo a proporre un modello matematico di “macchina logica” programmabile attraverso un algoritmo, spalancando le porte alla moderna tecnologia informatica e prevedendone addirittura i suoi limiti teorici.
L’interrogativo dal quale partì era questo: che cos’è una macchina? È possibile costruirne una che, manipolando dei simboli e delle regole in modo meccanico, dunque senza l’intervento dell’uomo, sia in grado di dimostrare o confutare delle affermazioni? Che possa cioè essere dotata di una forma di intelligenza e, quindi, pensare?
Questo interrogativo presupponeva ovviamente la capacità di spiegare cosa significhi “pensare”, anche per un essere umano. Siccome però è impossibile trovare una risposta univoca e condivisa, Turing decise di aggirare l’ostacolo: chiedersi se una macchina possa pensare, diceva, è una domanda ambigua e priva di senso. La vera domanda è chiedersi se potrà mai essere in grado, con le sue risposte, di ingannare un essere umano facendogli credere di esserlo a sua volta.
Dunque il tutto si riduceva, dal punto di vista della macchina, ad imitare l’intelligenza umana: un gioco imitativo, “Imitation game” lo chiamava Turing.
In un certo senso lo scienziato ci ha messo di fronte ad una vera e propria provocazione filosofica: “se una macchina può sostenere una conversazione come farebbe un essere umano, possiamo dire che pensa? E se crediamo che questo non basti, sapremmo anche dire perché? Possiamo dire che il nostro cervello, quando pensa, fa qualcosa di diverso e, se sì, che cosa?”.
Oggi i concetti di hardware e software sono alla portata di tutti, ma quando Turing formulò questi studi, eravamo nel 1934, e diede avvio al filone di ricerca sull’intelligenza artificiale, quest’idea era così destabilizzante che nessuno (o quasi) la capì fino in fondo. A questa macchina platonica e universale venne dato il nome di “macchina di Turing ”, un potente strumento teorico tuttora utilizzato poiché le implicazioni sono a dir poco affascinanti (*).
Tornando alle note di colore, mentre lavorava a questa idea rivoluzionaria vide al cinema Biancaneve e i sette nani. I suoi colleghi raccontano che per mesi canticchiò, con la sua voce sgradevolmente acuta, la canzone della strega che avvelena la mela. Rimase folgorato da quella storia e da quell’avvenimento: la sua eccentricità però non lo salvò dalla propria ingenuità. Anni dopo, andando a denunciare alla polizia un furto subito da un ragazzo con cui si era appartato, fu costretto ad ammettere la propria omosessualità, che allora era considerata un reato. In seguito a questo fatto, nell’Inghilterra puritana che abitava, fu obbligato alla castrazione chimica e ad una terapia ormonale che gli fece addirittura crescere il seno.
L’impatto sulla sua psiche fu tremendo. Poco tempo dopo quel trattamento decise di farla finita, nel modo più eccentrico e plateale che potesse: intinse una mela nel cianuro di potassio e, memore della strega di Biancaneve che tanto lo aveva affascinato, ne staccò un morso. Fu così che l’8 giugno 1954, la domestica di Alan Turing scoprì il suo corpo, riverso sul letto, nella piccola casa della periferia di Manchester in cui viveva. Solo il 24 di dicembre 2013, dopo sessant’anni dalla morte, la Regina Elisabetta ha “concesso” ad Alan Turing l’assoluzione reale.
Tra gli innumerevoli aneddoti che circondano la vita di quest’uomo straordinario, ne rimane uno molto famoso: quello che riguarda Steve Jobs. Il genio di Cupertino, infatti, non ha mai smentito di aver dedicato il simbolo della sua Apple, la mela morsicata appunto, alla travagliata e geniale vita di Alan Turing: l’uomo che seppe aprire gli orizzonti dell’informatica, ma non sopravvivere all’infinita stupidità pregiudiziale della gente che lo circondava.
(*) Ciò che Turing ci ha detto, infatti, è che non solo esistono problemi per i quali un calcolatore non può fornire soluzioni in tempo finito, ma anche che, per qualsiasi problema che sia viceversa calcolabile, esiste un programma della macchina di Turing che lo risolve. Questo è uno strano risvolto del suo teorema: se da una parte toglie speranza all’idea di calcolare tutto, dall’altro stabilisce che esiste da sempre un modello definitivo di calcolo che può risolvere tutti i problemi risolvibili. Questo ultimo punto getta una luce particolare sulla ricerca nel campo informatico: non esistono problemi risolvibili per i quali non esista già una tecnologia che consenta di risolverli; quindi i ricercatori non fanno altro che cercare di “fare meglio” (quando ci riescono) di quanto non si possa già fare con una macchina di Turing.