Anche il capitalista è un lavoratore

Il Quarto Stato al capolinea Sgombriamo subito il campo da equivoci. Queste considerazioni non sono contro il lavoro o i lavoratori. Non possono esserlo semplicemente perché nel Lavoro, quel...

Il Quarto Stato al capolinea

Sgombriamo subito il campo da equivoci. Queste considerazioni non sono contro il lavoro o i lavoratori. Non possono esserlo semplicemente perché nel Lavoro, quello con la “L” maiuscola, siamo tutti uguali. Ci sono lavori diversi, attitudini e talenti diversi, competenze e capacità diverse. Ma il gene di quella laboriosità che portò l’uomo a inventare la ruota, costruire il primo carro, avviare le prime timide forme di commercio, che costituisce la linfa vitale di ogni nuovo piccolo traguardo di progresso, è in tutti noi.

C’è un prima e un dopo Marx, certo. C’è un prima e un dopo il Medioevo. Un prima e un dopo il feudalesimo, la schiavitù, lo sfruttamento. C’è sempre un prima e un dopo tutte le cose. Un prima e un dopo rispetto a tutti i grandi cambiamenti.

E ci saranno sempre i rapporti di forza. I rapporti di forza fanno parte delle cose del mondo sin dai primi tre minuti del Big Bang. I rapporti di forza vanno governati e regolati e per questo sono nate leggi e convenzioni sociali.

Il rapporto fra datore e lavoratore sottende inevitabilmente un rapporto di forza. Nell’economia dello scambio che non contempla il baratto, il lavoro dà da mangiare solo se monetizzato. A meno che non si lavori la terra, ma questo è altro discorso.

La dipendenza rispetto alla monetizzazione (non parliamo volutamente di capitalizzazione) del lavoro ci ha portati a qualificare un certo rapporto come “subordinato”. E la regolazione dei contrasti che questo rapporto può generare ha portato alla nascita di nuovi diritti e di nuove forme di rappresentanza.

Preso atto di ciò, l’errore più grande che potremmo fare è quello di metterci contro, di metterci ANCORA contro, dovendo essere lo scopo condiviso quello di assicurarci reciprocamente uguali condizioni di una possibile felicità.

Il 18 ottobre 1946 l’Assembla Costituente discusse del fondamento della Repubblica da enunciare solennemente all’art. 1 della nostra Costituzione.

Palmiro Togliatti e Roberto Lucifero

Il deputato Palmiro Togliatti si batté per far aggiungere alla locuzione “repubblica democratica” l’espressione “di lavoratori”.
Perché, si chiese il liberale Roberto Lucifero. Che bisogno c’è di una simile specificazione? Forse Togliatti ha intenti classisti? Si intende forse porre la teoria del conflitto di matrice marxista alla base della nostra Repubblica? La lotta di classe come motore del progresso e del cambiamento? Quasi che il termine “lavoratori” non provenga da “lavoro” e che qualcuno possa restare escluso da tale qualifica.

No, no e ancora no.

Il verbale della seduta dà conto dell’altezza del dibattito, altezza che il nostro Parlamento non tocca da tempo: “A giudizio dell’onorevole Lucifero il dirigente di un’azienda, l’agrario o il consigliere di una società anonima, sono dei lavoratori, e, dato che attualmente la funzione capitalistica, sia pure regolamentata e controllata, continuerà a sussistere, pure la relativa attività dovrebbe essere considerata come lavorativa, nel senso che anche il capitalista è un lavoratore. Dubita, però, che questo suo modo di vedere sia condiviso dall’onorevole Togliatti e che si tenda piuttosto a stabilire una sperequazione tra i vari fattori della produzione. Ritiene invece che tutti coloro che partecipano alla produzione siano «lavoratori», dal presidente del consiglio di amministrazione fino all’ultimo usciere della società. Stabilito il principio che tutti sono lavoratori, in quanto uomini, il lavoro, inteso come manuale, non deve considerarsi preminente sugli altri fattori della produzione. Perciò, se da qualche parte si vuole distinguere il lavoratore del capitale dal puro prestatore d’opera, dichiara di non potere essere d’accordo circa la formulazione proposta, perché approverebbe un principio contrario alla sua concezione ugualitaria, che è la base di tutto il suo credo politico. Dichiara quindi che voterà contro l’aggiunta, non perché ritenga che lo Stato italiano non sia uno Stato di lavoratori, ma perché questa aggiunta potrebbe dare alla Costituzione stessa un carattere classista”.

La linea dell’onorevole Lucifero passò per un solo voto (8 contro 7). Per un solo voto l’Italia si risparmiò la lotta di classe come proprio fondamento ideale. 

Siccome, però, come ebbe modo di paventare lo stesso Lucifero, “l’intesa è soltanto formale ed il disaccordo, che è sostanziale, ricomparirà ancora quando si dovrà interpretare la Costituzione”, il patto sociale rimane oggi ancora a rischio, minato dall’ideologia che portò Togliatti a tentare il colpo gobbo e porre la logica del conflitto alla base della nostra convivenza.

Oggi non abbiamo bisogno di conflitto, ma di interazione. La chiave non sono la dipendenza o l’indipendenza (per alcuni, mal compresa idea di libertà), bensì l’interdipendenza. Lo scopo è unitario e può essere perseguito solo assieme, con la reciproca operosità responsabile. I contrasti non mancheranno. Così come gli abusi. Ma non possiamo più commettere l’errore di trattarli secondo logiche di conflitto fra classi.

Per fare ciò bisogna prendere consapevolezza, tutti, di alcuni assunti che si fa fatica ad accettare:

– che il sindacato sempre più spesso sta diventando un ostacolo per i suoi iscritti e la loro emancipazione;
– che il lavoratori propriamente intesi possono emanciparsi solo cooperando con gli altri lavoratori che offrono il lavoro;
– che i datori di lavoro non sono per definizione persone dall’abuso facile come li considera la sinistra che sta a sinistra di Renzi;
– che il capitale non è più da molto, se mai è stato, quella “proprietà che sfrutta il lavoro salariato” secondo la definizione che Marx ed Engels ne diedero nel Manifesto del Partito Comunista del 1848;
– che i lavoratori non sono per i datori “solo una merce come qualsiasi altro articolo in commercio” come li definiva ancora il Manifesto;
– che il lavoro non può essere tutelato in chiave assistenziale anche quando non c’è, rimanendo invece sacrosanta un’assistenza alla perdita di reddito;
– che non possiamo fare del lavoro un sussidio o una tassa contro una pretesa iniquità per definizione del datore;
– che come muoiono maledettamente lavoratori sul posto di lavoro, muoiono anche datori di quel lavoro, ammazzandosi con le proprie mani sotto il peso delle responsabilità;
– che, insomma, anche il capitalista, anche il datore è un lavoratore. 

Il Primo Maggio non è più tempo di conflitti di classe.

Piero Cecchinato

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