Step by StepMarxismo in salsa turca

BERLINO. Quello che il mainstream non dice, o si “dimentica” di ricordare è che il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan può scatenare la sua repressione bestiale, perché gode di un grande sost...

BERLINO. Quello che il mainstream non dice, o si “dimentica” di ricordare è che il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan può scatenare la sua repressione bestiale, perché gode di un grande sostegno popolare raggiunto con il successo di un’economia che, viaggiando con ritmi cinesi, gli ha permesso di vincere tre elezioni di fila. E così, forte del consenso delle masse, egli ha potuto – negli anni – devitalizzare di molto il potere della vecchia guardia dei militari filo atlantici e laici. Il colpo di stato nella notte tra venerdì 15 e sabato 16 luglio gli ha offerto un inatteso pretesto per sgomberarsi forse definitivamente il campo incarcerando decine di migliaia di oppositori. Sicché tutto lascia pensare che alla fine di queste purghe anche l’assetto degli equilibri politici sul Bosforo ne usciranno modificati.

Non va dimenticato che la Turchia ha ottantacinque milioni di abitanti a schiacciante maggioranza islamica, che è il secondo paese Nato per potenza militare e che ha un forte orgoglio nazionale, memore della storia imperiale ottomana. Insomma ha un “curriculum” degno di una nazione che aspira a un ruolo di leader in un’area delicata com’è il Medio Oriente. Infatti, è il consenso delle moltitudini di elettori credenti che ha permesso ad Erdogan di bloccare tutti in tentativi di riconquista del potere da parte dei militari, come anche gli ultimi fatti confermano.

Beninteso la Turchia accusa i colpi della recessione, un rallentamento dell’economia c’è stato, ma il Paese non è affatto prossimo al collasso, poiché il tasso di crescita che oscilla tra il 3 e il 4 per cento resta ancora abbastanza alto rispetto agli standard europei. Così il settore privato turco può ancora ampiamente fare affidamento sui prestiti di istituti di credito occidentali: 56 per cento da quelli europei e 12 da quelli statunitensi, per un totale di 188 miliardi di dollari in 13 anni. Ecco perché il sostegno ad Erdogan dalla gran parte dei turchi non viene meno, anzi è aumentato. Naturalmente l’economia per via del golpe è adesso sotto pressione, con Standard & Poor’s che ha tagliato il rating turco a BB (limite massimo ddella fiducia), e la lira precipitata di quasi il 10 per cento nel cambio con il dollaro. Ma tutto lascia prevedere che questa situazione di incertezza finanziaria non durerà a lungo.

“Il nostro reddito pro-capite medio è passato con Erdogan da 2 mila dollari annuali a 11 mila . Se non si comprende questo non si capisce come mai egli è sopravvissuto al golpe”

Infatti, fino a venerdì 14 luglio esistevano due Turchie, una contro l’altra e di peso uguale. Da una parte c’era la Turchia culturalmente europea, moderna, radicata nel ventunesimo secolo e composta dalla borghesia urbana, dai ricchi e dai giovani studenti con il loro fermento politico e sociale. Dall’altra parte la Turchia dei conservatori islamici del Partito della giustizia e dello sviluppo – l’Akp – e del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Quest’equilibrio – fallito il golpe – si è rotto, lo scenario s’è capovolto.

Agli occhi delle masse turche l’Akp, il partito fondato nel 2002 da Erdogan, è diventato la forza che ha lottato e lotta “contro l’ancien régime” , è il movimento rivoluzionario vittorioso. Infatti, questo partito di conservatori islamici i quali non hanno alcuna aspirazione jihadista, si dichiarano i fautori di una “lotta di classe” che dopo la vittoria elettorale del 2002, ha strappato i bambini dalla fame e dalla miseria. Come ha spiegato Hurichan Islamoglu, dell’Università del Bosforo: “In tredici anni Erdogan ha rivoluzionato il Paese. Ha creato una nuova classe media di ex contadini urbanizzati che lo adora. Il nostro reddito pro-capite medio è passato con lui da 2 mila dollari annuali a 11 mila . Se non si comprende questo non si capisce come mai egli è sopravvissuto al golpe”.

A ben guardare siamo di fronte un marxismo in salsa islamista, non molto dissimile dal khomeinismo degli albori che abbatté il regime dello scià Reza Pahlavi. A guidare la guerriglia in Iran furono all’inizio i fedayyin-e khalgh (volontari del popolo) d’ispirazione marxista, che presto decisero di unirsi ai mujaheddin islamici per coinvolgere nella lotta sempre più ampi strati della popolazione ed allargare così le basi della protesta. Come in Turchia anche in Iran il governo può contare da sempre sul sostegno della classe operaia, dei mostazafin, uno strato sociale che comprende tutte le famiglie i redditi delle quali lambiscono la soglia di povertà.

Erdogan ha potuto accaparrarsi il consenso con straordinaria rapidità, facendo leva sul boom economico della Turchia che ha effettivamente avvantaggiato i figli delle famiglie più povere, più religiose e più conservatrici. Nel contempo ha accelerato la conversione del paese al liberismo e il suo inserimento nel mondo globalizzato, senza perdere di vista il clero, anzi colmandolo di attenzioni e incassandone la riconoscenza.

E dunque, la Turchia culturalmente europea, moderna, radicata nel ventunesimo secolo e composta – come detto – dalla borghesia urbana, dai ricchi e dai giovani studenti, la Turchia dell’ “ancien régime” insomma ne è uscita inesorabilmente sconfitta. L’esito del golpe ne diventa la conferma più evidente. Agli occhi delle masse – udite,udite – è l’Akp, il partito islamista conservatore, che rappresenta la vera forza progressista.

Siamo di fronte un marxismo in salsa islamista non molto dissimile dal khomeinismo degli albori che abbatté il regime dello scià Reza Pahlavi.

Se questa convinzione non fosse stata ben radicata, nella notte del golpe non ci sarebbe stata risposta all’appello di Erdogan. La gente non sarebbe scesa in piazza, sventolando la bandiera nazionale decorata con quelle insegne perché «un riflesso della luna che occulta una stella, apparve nelle pozze di sangue dei cristiani sconfitti dopo la battaglia di Kosovo nel 1448». E’la battaglia durante la quale gli Ottomani sconfissero le forze cristiane e stabilirono l’Impero ottomano con l’adozione della bandiera turca nell’Europa orientale fino alla fine del XIX secolo.

Anche questo sventolio di vessilli aiuta a capire che nella Turchia di Erdogan, diversamente da quella di Atatürk, c’è una coesione e una sintonia tra Stato e società civile, come mai era accaduto nella storia del Paese. Essa si fonda sulla certezza che questi conservatori islamisti dell’Akp non hanno alcuna intenzione di sostituire le insegne della “lotta di classe” con quelle dell’Islam, di trasformare la Turchia in una ierocrazia, in un governo di preti come in Iran.

Così anche si spiega perché la Turchia non ha alleati nel mondo arabo, e adesso che è ai ferri corti con gli Stati Uniti e con l’Europa rischia di rimanere isolata davvero. Ma non credo per molto.

vincenzomaddaloni.it

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