Brevi spunti dopo un meritorio convegno della Fondazione “Paolo Grassi” a Milano
Annoto oggi qualche spunto alla fine del convegno – denso e in controtendenza – promosso a Milano dalla Fondazione Paolo Grassi (dei cui organi faccio parte) sul tema: come riconoscere il nuovo nell’arte, nella musica e nel teatro. Lo spirito dell’evento è evidente, sostenere la contemporaneità soprattutto nell’educazione culturale dei giovani. Ma dietro ai termini si celano anche vecchie e nuove ambiguità.
Lo faccio in questa rubrica dedicata alla buonapolitica (e per converso alla malapolitica) perché, appunto, di recente il senso della parola “nuovo” è molto cambiata. E la politica è il soggetto che di più ha contribuito a questo cambiamento. Restando, in più, una parte in causa della qualità e soprattutto dei limiti del dibattito pubblico sulla materia.
Ogni fondazione dedicata alla storia di una personalità ha un occhio che guarda indietro. In questo caso al pionierismo di Paolo Grassi, grande organizzatore culturale del ‘900 italiano ed europeo, che il nuovo lo cercava con la lanterna di Diogene sia nell’offerta che nella domanda, cercando cioè quotidianamente anche “nuovi” pubblici e allargando così significativamente il “mercato” della cultura. Ma l’altro occhio è quasi sempre inchiodato sul presente e sul futuro, per cercare cioè, con qualche lezione del passato, quello che i partiti faticano a disegnare e che le istituzioni (povere ormai di studi e strategie) progettano con sguardi spesso troppo corti.
I dati di Eumetra (una ricerca ad hoc per il convegno presentata da Renato Mannheimer) dicono che solo 18 italiani su 100 riconoscono valore al “nuovo” nel campo dell’arte e dello spettacolo – cercando di dire “nuovo” però nel senso di prodotti “colti” – e poi, con un certo ravvedimento, sfiora il 40% il numero di chi sarebbe disposto ad accedere a una offerta. Pessimismo e ottimismo possono confrontarsi. Ma se la parola passa agli operatori – nel senso degli artisti – il misurarsi con il nuovo non si taglia più con l’accetta, Perché – come è ovvio – nuovi sono i linguaggi, le forme, i contesti, in una parola “le interpretazioni” e non solo la contemporaneità delle opere o degli autori. Quanto alla musica essa si sente poi in permanente offerta di nuovo. Il jazz si sente avanguardia da un secolo e oggi le forme post-moderne che entrano nei circuiti di consumo sono infinite e con molto pubblico.
Dove sta allora il problema?
Uno dei pochi sovrintendenti che nasce dalla professione artistica (compositore) e non dalla politica (Nicola Siani, Comunale di Bologna) attacca proprio la categoria, che nel mondo appartiene a competenti creativi o intellettuali e in Italia appartiene alla lottizzazione dei partiti. Musicisti (come il maestro Carlo Boccadoro) applaudono e parlano – con una venatura brechtiana nell’espressione – del sistema italiano dominato “da coloro che siedono dietro alle scrivanie” che, a suo dire, non conoscono il nuovo (ma neppure tanto il vecchio) e pensano di dover “proteggere” il pubblico da un prodotto non gradito, proiettando invece la loro insipienza.
Il convegno – partito con i filosofi (come Salvatore Natoli) a cercare definizioni alte del “nuovo” – arriva al dunque e mette in discussione il sistema politico-istituzionale che non valorizza la promozione sperimentale e innovativa lasciando che un paese come l’Italia che ancora dieci, quindici anni fa era nel gruppo di testa delle economie creative, oggi (Creative Global Index) è scesa al 21° posto, dietro l’Austria e alla pari del Portogallo. Intanto scorrono interventi di spessore sulle esperienze personali, dal maestro Antonio Pappano a un regista-attore con grande vigore narrativo come Elio De Capitani. Li senti e ti sembra che la battaglia per il “nuovo” vada messa dentro il quadro di competenza generale che si richiede alla cultura: nuovo non nuovismo, ricerca continua non novità. Appunto, lo stesso spunto iniziale di Natoli.
Tocca ad Armando Massarenti (in dialogo con me) chiudere la giornata e alcuni nodi vengono al pettine. Massarenti guida un progetto editoriale che in 33 anni si è imposto come autorevole legittimatore del rapporto tra tradizione e innovazione nel campo dell’arte e della cultura, il supplemento domenicale del Sole 24 ore. Ma è ben cosciente che i numeri della “domanda” competente restano piccoli anche rispetto alle esigenze di un paese che vanta ruoli competitivi internazionali in questi campi. Lettura, ascolto, fruizione culturale, ancora al di sotto delle attese. Ma fin dall’apertura (Davide Rampello e Filippo Del Corno) il “riconoscere il nuovo” non viene considerato un problema di numeri ma di metodo, cioè introdurre spazio decisionale per l’intelligenza dell’incoraggiamento artistico così da far emergere ciò che si chiama talento. Resta per tutti che i “talenti” non crescono come i cavoli, ma richiedono scuola, università, contesti valutativi premianti, regole, risorse. E a me viene anche in mente che una nuova generazione sta spostando – anche su questa materia – il concetto di “nuovo” dai contenuti (come un po’ tutto il gruppo convegnistico si sente per tradizione portato) alle tecnologie. Facendo prevalere forme, velocità, integrazione cross-mediale. E anche solitudine della fruizione. Da qui l’inevitabile analisi delle principali potenziali “scuole sociali dell’innovazione” (appunto la scuola e ancora la televisione) riconoscendo qualche tratto di esperienza in una sostanza che lo stesso Massarenti ritiene tuttavia inadeguata.
Già qui il concetto di “nuovo” si incrina.
Ma è guardando a come la politica – in Europa e in America – sta spendendo di più il concetto di “nuovo” – dal nostro lepenismo muraiolo al trampismo dell’estetica ultrakisch in America – che ci viene alla fine un piccolo soprassalto che rinvia ad una nuova necessaria rubricazione del concetto di “nuovo”.
A Francesca Grassi – figlia di Paolo – non resta che constatare in chiusura che le stesse attività educative che, con quattro soldi, producevano grandi esperienze di crescita creativa nei ragazzi di molte scuole, azzerate nei piccoli fondi a disposizione, siano una risposta all’italiana che il nuovo in materia non lo si vuole nemmeno promuovere nelle forme più semplici.