Qualche spunto per tenere in agenda il senso del prossimo 25 aprile
Ho dedicato tempo ieri a vedere programmi televisivi italiani ed europei sulla situazione politica, prima e dopo le notizie del nuovo attentato terroristico a Parigi.
Si dice e si scrive che la funzione principale del giornalismo stia diventando più quella di allarmare che quella di informare, pur con evidente e interessante conflitto interno al settore. Sarebbe bene che il mondo dell’informazione tirasse ormai le somme rispetto al rischio che, malgrado la vitalità del confronto, l’esito potrebbe essere, date le circostanze attuali, una solenne sconfitta professionale.
Forse è persino cresciuta la minoranza dei cittadini che pensa e giudica nel quadro di una inquietudine sostanzialmente informata. Ma appare ormai evidente, non solo nella demoscopia ma nei tanti riscontri socio-psicologici che abbiamo, che sono soprattutto in crescita rimozione ed estraneità a questo processo comunicativo. Vivendo nelle città, nei quartieri, tra i giovani, nelle scuole e nelle università – dove le minoranze informate e inquiete pur si riconoscono – si vede soprattutto una diffusa mancanza di percezione della potenzialità dell’imminenza del peggio.
La storia si ripete
Il ‘900 occidentale cominciò con la forte speranza tecnologica di regolare meglio l’insorgenza del capitalismo temperando le durezze con le scoperte scientifiche e tecnologiche e operando per una certa redistribuzione della ricchezza. Da noi si forarono le Alpi per congiungere i popoli e unire strutturalmente l’Europa. Sull’evento del Sempione Milano ottenne il suo primo Expo nel 1906 all’insegna di chiudere barriere e aprire commerci e scambi. In generale l’economia, la pedagogia, la tecnologia elettrica e meccanica disegnavano una speranza globale che contagiava la società. Ma al tempo stesso la politica maturava il più grande conflitto strutturale possibile regolando i conti tra l’800 restauratore e l’800 generatore delle culture identitarie degli stati nazionali. Cambiavano la musica, il teatro, le arti; arrivava il cinema; si usciva dal paesaggismo per nuovi racconti energetici della storia dell’uomo. E in questo contesto estetico davvero pochi prevedevano il peggio. Così che la barriera sociale alla pazzia di alcuni poteri rischiava di essere troppo fragile. E il peggio arrivò fulminante tra il 1913 e il 1914 non per regolare confini, come ci hanno raccontato sui libri di scuola, ma per la battaglia finale senza esclusione di colpi tra i sorgenti Stati nazionali e i vecchi imperi, austroungarico, zarista e ottomano. 50 milioni di morti, massacrati con una violenza mai vista, come la vicenda di Caporetto (di cui ricorre quest’anno anno il centenario) scrisse lapidariamente.
L’insufficiente barriera sociale
Malgrado segnali inequivoci di trasformazioni autoritarie – innescate con la rivoluzione russa e con l’arrivo del fascismo e poi del nazismo – le società del primo dopoguerra scelsero ancora di essere irretite dal brio del secolo, dalle nuove libertà, dal cinema dei telefoni bianchi, dalla costruzione del moderno consumismo. Niente di male, non si poteva e non si doveva piangere a vita sui quei 50 milioni di morti, ma piuttosto riscattarli. Si stava formando anche una coscienza informata attorno al rapporto tra tradizione e cambiamento, soprattutto grazie ad una scuola di qualità che il ‘900 stava producendo (ma per minoranze). Malgrado le innovazioni tecnologiche e professionali, rispetto a certi fenomeni sottili già si segnalava una certa crisi di qualità dell’ informazione del tempo, complice la rete diffusa delle nuove forme di propaganda dei regimi. Al punto tale che non vi era nemmeno coscienza, nella seconda metà degli anni trenta, nelle famiglie ebraiche abbienti nelle maggiori città tedesche che da lì a pochi mesi sarebbero stati pronti per loro i forni crematori. Figuriamoci gli altri. La propaganda portò i giovani borghesi speranzosi a fare i volontari in guerra sulle montagne di Grecia, in Africa, in Russia. In una disinformazione devastante che preferiva credere allo “spezzeremo le reni alla Grecia” anziché nel disporre di moderne e aggiornate carte geo-militari. La barriera sociale anche qui fu insufficiente e investì a malapena la formazione (non dappertutto) dei nuclei di resistenza. La cecità popolare costò un’altra volta 50 milioni di morti.
L’Europa, da violenza a cooperazione
Dalla fine della guerra a oggi l’ Europa ci ha dato 70 anni di neutralizzazione dei rischi peggiori della storia dell’umanità. La trasformazione della violenza in cooperazione. Nel conflitto tra buona e cattiva politica (pronte a dare offerte alle domande di una buona e di una cattiva società) la cornice europea ha spostato alcuni equilibri rispetto a standard importanti: la legalità, la concorrenza, il depotenziamento dei pregiudizi e degli stereotipi , l’innalzamento dei livelli di scolarità, la conoscenza delle lingue, la riduzione funzionale dei nazionalismi. Eccetera. Negli ultimi vent’anni, appannamenti, perdita di visione e incapacità progressiva di fare fronte alle paure. Il rischio di mandare in fumo quel patrimonio serpeggiava nei teleschermi ieri, dove l’attentato di Parigi rimetteva in ascesa Marine Le Pen mentre girava persino l’idea che il socialista Hamon decidesse il modo più fruttifero di suicidarsi per la sua ormai marginale posizione: lasciare il campo a favore del socialista estremista Melanchon, così da mettere in ballottaggio i due estremismi, entrambi pronti a seppellire l’Europa.
L’esito del voto in Francia
Come si sa l’esito delle elezioni francesi è la condizione – insieme al prossimo esito delle elezioni tedesche (e poi di quelle italiane) – di rispondere alla Brexit rilanciando anziché finendo per affogare nelle limacciose paludi dei populismi nazionali. Ma anche questa volta la percezione del peggio non pare – intanto in Italia – assumere la consistenza necessaria. Gli orientamenti che puntano a prevalere favoriscono l’incapacità di gestire (non per buonismo ma per convenienza) l’ ineludibilità delle migrazioni, rispetto a cui sono abissali l’ignoranza e l’ipocrisia. E fanno crescere una sfiducia radicale nei confronti delle istituzioni e delle forme di competenza che in esse, pur con tutte le storture del nostro modo di concepire il potere, si sono collocate (la questione dei “vaccini” si colloca in un certo senso in questa dinamica).
Sono sentimenti che ancora una volta rifuggono l’informazione corretta, per scegliere le due droghe in vendita su qualunque mercato: quella della rimozione totale o quella della violenza verbale ed emozionale contro tutto. Un’altra volta potrebbe prevalere la perdita di capacità di prevedere il peggio. Spesso grazie ad un ceto politico più sprovveduto del passato sulle analisi e sugli strumenti , ma più risoluto nell’alimentare la disinformazione. Quella che inesorabilmente trasforma un diritto alla legittima difesa in un applauso scrosciante, magari nelle cosiddette piazze virtuali, per una nuova dichiarazione di guerra.
E’ chiaro che malgrado le provocazioni la risposta dell’elettorato francese domenica sposterà sensibilmente gli equilibri di questo scontro. Anche per noi.